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Viaggio in Sri Lanka: pietra e spirito

Dimenticare il traffico di Colombo e partire: le città antiche sono custodi di storia secolare e anima dell’isola

 

Archeologa: ecco chi avrei voluto essere veramente da grande, quando avevo suppergiù sei anni. Per la cronaca, la vocazione non si è mai del tutto sopita, ma sono dovuti passare più o meno tre decenni affinché l’occasione di darle libero sfogo capitasse.
C’è ben poco di più sorprendente del trovarsi al cospetto di ciò che resiste al tempo, alla natura e all’uomo stesso, restando immutabile nei secoli. Le pietre ricordano il passato, sono memoria di civiltà antiche, spesso ancora oggi luoghi sacri nei quali è percepibile l’energia antica della devozione. Per tutti questi motivi, con zaino in spalla e scarpe da trekking, lasciare Colombo e dirigersi verso le città antiche dello Sri Lanka è il vero inizio dell’avventura, il modo per scoprire lo spirito più profondo di questo Paese. I mezzi di trasporto? Treni locali, autobus con musica locale a stecca e, soprattutto, biciclette.

L’ascesa verso Mihintale

Il sacro tempio di Mihintale è il primo a essere stato costruito sull’isola e risale a tre secoli prima di Cristo, 582 acri abbarbicati su una collina, a qualche chilometro da Anuradhapura, ad oggi riconosciuti come la culla del buddhismo in Sri Lanka. Proprio qui, secondo la tradizione, è avvenuto un incontro fondamentale: quello tra il monaco Mahinda, che dall’India arriva qui a predicare la dottrina, e il re Devanampiyatissa. Da quel momento in poi, il buddhismo inizia la propria storia sull’isola.
La prima tappa che si rivela inerpicandosi verso la zona sacra è il dagoba di Kantaka Cetiya: si tratta di uno dei luoghi più potenti di meditazione dello Sri Lanka e, scettici o no, lo si avverte. Camminando intorno ai circa 130 metri della sua circonferenza, rocce avvolte nella vegetazione fitta, si scorgono i frontoni rivolti verso i quattro punti cardinali, decorati di figure umane, naturali e animali: un elefante a oriente, un toro a sud, un cavallo a ovest e un leone a nord. Osservando da vicino i gradoni, sono ancora poi visibili gli antichi pigmenti che ne coloravano i fregi, tracce di ocra e rosso brillanti.

A pochi passi questa fucina energetica, un ingresso angusto conduce tra rocce che sembrano reggersi in equilibrio precario l’una sull’altra: qui sotto, per secoli, i monaci si sono raccolti in meditazione. Pare che quelle cavità rotonde scavate nella pietra (in cui non ho mancato di inciampare, ndA) siano archetipi dei moderni zampironi, piccoli crateri nei quali bruciare essenze per tenere lontani gli insetti durante il ritiro meditativo. Passando tra queste rocce, scalando pietre, scivolando sui ciottoli, all’improvviso, ci si ritrova su una sporgenza rocciosa che domina le colline circostanti. Da qui, lo sguardo spazia verso la meta successiva: il candore dello stupa Maha, raggiungibile continuando il cammino tra infinite gradinate, alberi e scimmie.

L’eterna Anuradhapura

La chiamano l’eterna città sacra: Anuradhapura è stata la capitale del primo regno dello Sri Lanka e centro religioso dell’intera isola che, per oltre 22 secoli, ha custodito le tradizioni più sacre. Archeologi e storici quotidianamente fanno nuove scoperte ed elaborano inedite teorie che mettono in dubbio quanto scoperto il giorno prima, ma su una cosa sembrano concordare: che il connubio tra buddhismo e antichità, qui presente nel suo vertice, rappresenta il nucleo di questa civiltà, non a caso Patrimonio dell’Unesco (e nell’isola sono otto i World Heritage Site) dal 1982.
La città moderna è un crogiuolo di strade trafficate e bassi edifici, ma basta attraversare la ferrovia e un piccolo fiume per raggiungere il sito archeologico, dove si trovano, tra gli altri, gli immensi stupa di Abayagiri e Ruwanwelisaya.

Il modo migliore per scoprire Anuradhapura è inforcare una bicicletta, munirsi di una mappa e andare da una parte all’altra del sito, tra edifici sacri circondati da monumentali fregi e rovine di palazzi reali, greggi di capre che pascolano tra antiche rovine e laghi che sbucano all’improvviso dall’orizzonte.

Del resto, alcune meraviglie si scoprono per caso. Lungo una strada asfaltata che taglia un fitto bosco, c’è una piccola deviazione, un sentiero sterrato che sembra perdersi nel mezzo del nulla, con un cartello scritto a mano a indicare le rovine di una cittadella. Qui, arrivando a un cumulo di rocce, spunta un posto dove è comodo sedersi per riposare e capire esattamente la propria posizione… salvo scoprire che quel posto, tanto accogliente, è lo scalino di un palazzo sacro, il Tempio della Reliquia del Dente. Il dente è ovviamente quello del Buddha, arrivato in sri Lanka nel 313: ora questa reliquia sacra si trova a Kandy, ma questa è stata la sua prima casa. E, sebbene siano rimaste poche pietre, splende di una solennità ancora vivida.

Sigiriya e la coscienza del prodigio

Non so cosa passasse per la testa di Re Kashyapa alla fine del V secolo (quando l’Italia era alle prese con le invasioni degli ostrogoti, per rendere l’idea), ma questa roccia nel mezzo del niente è diventata la rappresentazione dello straordinario. Un altro sito Patrimonio Unesco e, a detta di molti, ottava meraviglia del mondo, Sigiriya è prodigiosa. Avventurarsi in questo sito vuol dire attraversare giardini d’acqua e di pietra, passaggi, caverne, roccaforti e poi ritrovarsi ai piedi di una roccia grandiosa, visibile da decine e decine di chilometri nella sua imponenza regale.
Salendo su questa sporgenza rocciosa, si incontrano proprio a metà strada elementi dell’incredibile nello straordinario: pitture rupestri antiche di millenni, nei loro colori sgargianti e tracciate da mani sapienti, così sapienti che gli occhi di un Buddha sembrano seguire lo sguardo di chi li incrocia. Insomma, dove la natura ha plasmato una vera e propria meraviglia, arriva il tocco dell’uomo ad armonizzarsi con genio e rispetto, per arrivare a quella che sembra essere perfezione.

Un aneddoto. Quando la sottoscritta ha tirato su la testa e osservato la grande roccia vulcanica stagliarsi sul cielo azzurro, la dichiarazione è stata chiara: “Fino a là sopra io non ci salgo, conosco i miei limiti!”. In realtà, mi sbagliavo e ora ne vado fiera: perché forse, a volte, tendiamo a non avere esattamente chiaro quali siano effettivamente i nostri limiti reali; o forse, da un altro punto di vista, abbiamo paura di andare oltre, infrangerli. Non so esattamente dove collocare me stessa in questa doppia interpretazione ma, quando i gradini dell’ultima rampa di scale sono finiti e la cima è arrivata, ho capito che fino a quel momento, nella vita, non avevo mai visto qualcosa di minimamente paragonabile.

Un paio d’ore a sgattaiolare tra troni e rovine e, nella discesa, si scoprono anche caverne finemente dipinte, come la grotta di Asana, e sale del consiglio scolpite nella roccia.

Oro e roccia di Dambulla

Arrivare al Tempio d’Oro di Dambulla (ed è di nuovo Unesco) lascia un po’ basiti: un ingresso monumentale di oro e colori sgargianti, a metà tra un parco dei divertimenti e il varco d’accesso all’ultraterreno.

Uno dei motivi per cui sono sull’isola tuttavia è vedere il Rock Temple, un luogo di culto composto da caverne scavate nella roccia e nelle quale perdersi. Ci sono cinque grotte: del Divino Re, dei Grandi Re, Nuovo Monastero e le ultime due piccole grotte. Ciascuna di queste custodisce un universo dove il tempo e i suoni del mondo intorno non oltrepassano la soglia. Pareti dipinte dai colori vividi, statue di Buddha immobili nella loro solennità, gocce d’acqua intente a sciogliersi nel loro ritmo: in tutto questo l’unica via è abbandonarsi.

Le rovine di Polonnaruva

Capitale medievale dello Sri Lanka nell’XI secolo (mentre l’Europa transitava dall’Alto al Basso Medioevo), Polonnaruva conosce da protagonista il periodo più splendido nell’isola e, oggi, girare in bicicletta tra le rovine riporta con la memoria a un passato glorioso. L’antica città, patrimonio Unesco, si articola in due parti: una cittadella, dove sorgevano il palazzo del re e quelli della corte, e un’area esterna, gremita di edifici sacri che si perdono nel verde. Il tutto a comporre una sinfonia di rocce e mattoni monolitici, incastonati nella foresta splendente.
Nota musicofila: qui, nel 1982, i Duran Duran girarono il video di Save A Prayer e, a dirla tutta, la band ha filmato altre location nell’isola.

Architetture, sculture e affreschi si susseguono senza sosta. Tra le molte degne di nota, il Vatadage, una struttura circolare tipica dell’architettura più antica dello Sri Lanka, e il Gal Pota, la rappresentazione in roccia di un manoscritto. Una nota a margine, ma non certo per importanza, va riservata alle pietre di luna che spesso fanno capolino tra le antiche rovine di questo e altri luoghi: ogni Sandakada pahana è un esempio unico di arte antica qui nel Paese, una pietra semicircolare intarsiata con elaborati motivi faunistici che, di solito, è collocata all’ingresso di edifici o ai piedi delle scale.
Al termine del sito, Lankatilaka Vihara è l’ennesima sorpresa: una rovina quasi appartata, maestosa, barocca nei suoi fregi, custodisce all’interno di una navata imponente (il cui tetto è ormai solo un ricordo), una statua gigantesca di un Buddha senza testa.

Così, si arriva poi a Gal Vihara, il tempio di roccia nera. Qui è presente un trittico di statue del Buddha scolpito nel granito, in tre variazioni: il Maestro seduto in meditazione, in piedi e disteso. Non è tanto la loro imponenza a soprendere, quanto il contrasto tra la monolitica presenza e la serenità che emanata da ogni lineamento, la delicatezza dei dettagli, come le pieghe nel cuscino del Buddha dormiente, l’armonia delle linee.

Tutto questo continuando ad andare avanti e indietro sospesi tra colori incredibili: natura verde, terra rossiccia, cielo turchese.

Ci sono due parole che aleggiano in ogni anfratto delle città antiche: pietra e spirito, immutabili nei secoli e ancora oggi così reali. Questo è il cuore più antico dello Sri Lanka ma ora, dopo polvere e meraviglia, un unico desiderio emerge: arrivare al mare, raggiungere Negombo!

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