Ovvero andare a Venezia, perdersi tra le opere d’arte ancor prima che nelle calli e rendersi conto, ancora una volta, che la bellezza ci salverà tutti
L’ arte contemporanea è meravigliosa. Lo è nella misura in cui ogni opera acquisisce la propria dimensione quando fa breccia in ognuno di noi, mettendo in moto emozioni e idee senza lasciarci inerti. Partendo da questo presupposto, vedere ogni volta una città come Venezia, una delle più affascinanti del mondo intero, intrisa di storia e bellezza in ogni mattone, trasformarsi in una galleria a cielo aperto, è quanto di più bello possa accadere.
Per tutti questi motivi, una visita (ma anche di più) alla Biennale d’Arte non può che essere un punto fermo. In particolare, quest’anno il focus è quantomai attuale ed è ben illustrato dalle parole di Paolo Baratta, il Presidente:
Un umanesimo che celebra la capacità dell’uomo, attraverso l’arte, di non essere dominato dalle forze che governano quanto accade nel mondo.
Prendendo le mosse da questo tema, si susseguono così le opere di oltre un centinaio di artisti, molti al debutto veneziano, tanti sparsi per le vie della città e non solo tra i Giardini e l’Arsenale.
Esordire con Dirk Braeckman al padiglione belga fa capire che la Biennale sarà indimenticabile. Le sue fotografie analogiche in bianco e nero si dischiudono allo sguardo, in un confine mellifluo tra reale e astratto. Sono storie vivide, catturate nel loro scorrere in un momento enigmatico, un obiettivo su momenti privati che diventano un universo da esplorare, denso e pieno di emozione. Un grazie a Eva Wittocx, perché rimanere di fronte a queste immagini, che galleggiano nel bianco abbacinante del padiglione, è un’esperienza ultraterrena.
Nel padiglione centrale, il workshop Green Light, Shared Energy ha delle parole chiave ben definite su cui riflettere: prospettiva sulla migrazione, cittadinanza, apolidia, memoria e appartenenza.
E poi arriva lui, John Latham, così, senza preavviso e quando ancora ci sono centinaia di opere da cui lasciarsi conquistare: i suoi lavori in gesso, frammenti di libri, cera, vernice e spesso fili elettrici si impongono da subito. Egli è spesso lasciato ai margini, ma di sicuro ha anticipato svariate correnti di arte contemporanea e, dalla fine degli anni ’50, il libro è elemento cardine della sua opera. Qui sono presenti gli skoobs, bassorilievi. Sempre lui, dichiara alla Biennale i suoi libri favoriti: I fratelli Karamazov e Finnegans Wake.
Con Peace On Earth, l’Ungheria abbaglia con i dettagli minuziosi che arrivano a tradurre in forma materica la più astratta delle idee: la pace. Le opere di Gyula Varnai prendono le mosse dai sogni di pace utopici degli anni ‘60 e le proiettano verso il futuro, dando una dimensione materica e solida. Basta osservare l’arcobaleno realizzato con 8.000 distintivi originali degli anni ’60 e ‘70.
Incappare in The Aalto Natives è un ottimo modo per amare follemente i finlandesi. Dall’archeologia alla fantascienza, Nathaniel Mellors e Erkka Nissinen prendono in esame i temi antropologici dell’invezione dell’identità nazionale e della nascita culturale. E lo fanno in un universo assurdo, a tratti grottesco, con un approccio cinematografico.
Nel padiglione degli Stati Uniti, Mark Bradford declina il concetto di “domani è un altro giorno” secondo l’impeto. In Tomorrow Is Another Day i disegni architettonici del padiglione sono destrutturati dal suo intervento artistico, emozioni coagulate che cancellano spazi e pareti, inglobando lo spettatore al proprio interno.
Pagliette di metallo, caffè e muffa: Gal Weinstein cattura un attimo di poesia e distruzione, sigillandolo all’interno del padiglione israeliano: la sua opera è una rampa di lancio di un missile, a pochi secondi dall’evento. L’istante qui è colto nel suo deflagrare, la potenza distruttiva umana cristallizzata, mentre l’odore delle spore impregna l’aria intorno.
Con My Horizon, Tracey Moffat presenta due serie fotografiche dal titolo Il corpo ricorda e Traversata, nonché due video, Veglia e I fantasmi bianchi giunsero dal mare. Inutile sottolineare come l’esperienza sensoriale tra queste immagini sia tra le più incisive viste nei Giardini.
Poche parole: Jana Zelibska e i suoi cigni di Swan Song Now.
Ed eccoci al padiglione inglese, senza dimenticare gli eventi britannici disseminati in tutta la Laguna. Nel padigilione, il regno è rappresentato da Phyllida Barlow con Folly. Qui, la relazione tra spazio e oggetto prende forma nelle materie colossali plasmate, come compensato, cemento plastico e stoffa.
Il Giappone di Takahiro Iwasaki segue il tema Capovolta, è una foresta. La storia di Hiroshima è onnipresente nell’opera dell’artista e lo è anche qui: da città di guerra a città di pace, con una rotazione immaginaria. Dettagli e materiali sono di uso qutodiano, uniscono artigianalità antica e immersione nel presente: con Ship Of Theseus viene riprodotto il santuario di Itsukushima in cipresso giapponese, mentre con Tectonic Model, su un tavolo acquistato a Venezia, compaiono pubblicazioni con strategie antisismiche o tematiche energetiche a sottolineare l’instabilità della terra, nonostante l’appartente solidità.
A pochi passi, la Corea accoglie con le sue luci che si stagliano tra gli alberi, la Venetian Rhapsody. All’interno un universo da scoprire, come Proper Time di Lee Wan.
In Russia compare invece Theatrum Orbis Terrarum, rassegna curata da Semyon Mikhailovsky che, partendo dal nome mutuato da quello di un atlante fiammingo del ‘500, sonda ansie, icone e incubi della società russa di oggi.
E cosa dire dell’Arsenale? Che è un universo nel quale perdersi, dove il connubio tra mattoni intrisi di storia su cui poggia Venezia e lo sguardo all’arte di oggi, viva, presente e attuale, non può che imporsi al massimo livello.
Non so quanti possano credere alle parole del principe Miškin che, nell’Idiota di Dostoevskij, sostiene “La bellezza salverà il mondo”. Forse, continuando a inseguirla, ognuno di noi fa sì che questo si avveri.
Tutte le foto sono state scattate dalla sottoscritta (grazie Huawei).