Firmata da Hildur Ingveldardóttir Guðnadóttir, la colonna sonora di Chernobyl spazia da suoni registrati in una centrale nucleare dismessa a cori russi, dal collasso della tecnica alla tenacia dell’umanità.
Eccola, l’apocalisse atomica che estingue ogni traccia di umanità, trasforma forme di vita in simulacri, devasta campi e foreste per lasciare solo detriti. E resta solo il silenzio, interrotto dal gracchiare dei contatori Geiger. La colonna sonora di Chernobyl, la serie tv di HBO, è tutt’altro che irrilevante.
Il regista Johan Renck, nel portare la vicenda di Chernobyl sullo schermo, permea ciascuno dei cinque episodi di ansia, lo stringe in una morsa claustrofobica, immerge lo spettatore nel terrore, per quanto i fatti non siano inediti e si debba, data l’origine anglosassone degli attori, forzatamente ricorrere a una sospensione dell’incredulità.
Sono diverse le scene che si imprimono nella memoria, dalla danza dei bambini sotto le ceneri radioattive, al lungo piano sequenza della deposizione dello scienziato Valery Legasov, interpretato da Jared Harris, con cambi di fuoco in un monologo senza posa, per non trascurare gli innesti (ricostruiti) delle telefonate in russo ai vigili del fuoco. La musica fa il resto. E non è poco.
La ricerca sonora di Hildur Ingveldardóttir Guðnadóttir
Da un lato la profondità del dramma umano, dall’altro l’inesorabile ferocia della fisica e il tracollo di meccanica e tecnologia: la musica permea questa dicotomia.
È la violoncellista e compositrice islandese Hildur Ingveldardóttir Guðnadóttir a tessere la trama sonora. Polistrumentista, il suo talento la porta lontano dalle coste dell’isola: collabora con Pan Sonic, Múm, Johan Johannson e molti altri, è spalla degli Animal Collective, suona musica bulgara e greca. Alla sua visione senza confini disciplinari e culturali, il compito di immergersi nelle scorie radioattive.
Così, una centrale nucleare dismessa in Lituania diventa luogo per registrare i suoni ambientali dell’album. Da qui, si addentra nel suono radioattivo, le note si insinuano come particelle nel condotto auditivo, permeando ogni scena e arrivando dritte all’anima. Se nella realtà le radiazioni rappresentano un nemico insidioso, uno spettro, qui si trasformano in veicolo di emotività.
Alcuni brani della colonna sonora di Chernobyl
Non a caso, la prima traccia della colonna sonora è The Door, con il synth sorretto da battiti metallici che sembra introdurre alla lunga discesa nel ventre del mostro, una creatura reale, creata dall’uomo e ora indomabile, un bolero soffocante. Si fanno largo poi il sapore metallico di Turbine Hall, dall’atmosfera algida, e la soffocante Pump Room. Ancora, spostando lo sguardo verso l’esterno, in Corridors è simulato il rombo degli elicotteri, mentre le atmosfere sospese di Bridge Of Death ricordano l’esistenza di un vero “ponte della morte” a poca distanza dalla centrale, ripreso nella scena già citata della serie. E, forse non a caso, Evacuation il brano più lungo della colonna sonora di Chernobyl, una strenua marcia verso la (possibile?) salvezza.
Tra la fatale impalpabilità delle radiazioni, corridoi asettici e palazzi abbandonati, non va dimenticata tuttavia l’umanità: ritorna proprio con una canzone in russo, che affonda le radici in una terra maledetta. È il coro etereo di Vichnaya Pamyat, brano che non solo dà il titolo a un intero episodio, ma che pure è mutuato dalla cerimonia funebre ortodossa, e recita “in memoria eterna”.
Sulla stessa linea è Líður, brano dell’autrice islandese riadattato per la serie, che si sviluppa tra tocchi al piano, silenzi e una lieve linea vocale. Un simile effetto arriva da una traccia non è presente nel disco, che tuttavia dirompe in uno degli episodi più toccanti e viscerali, Black Raven.
Intervistato per un documentario, uno dei superstiti del disastro di Chernobyl afferma che “ci sono stati così tanti morti e feriti perché nessuno è scappato, tutti sono rimasti a fare il proprio dovere”. Come il team di scienziati, incarnato nella serie dal personaggio di Emily Watson. E il nostro dovere, anche decine di anni dopo, è guardare negli occhi il mostro, impavidi nella forza della memoria.
Immagine in apertura di Yves Alarie da Unsplash.