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Remo Bianco al Museo del Novecento di Milano

Instancabile, inafferrabile, contemporaneo, precursore: Remo Bianco è artista simbolo del XX secolo. Ed è in mostra al Museo del Novecento di Milano.

C esare Pavese scrive che “non si ricordano i giorni, si ricordano gli attimi”. A pensarci bene, in queste parole si riflettono opera e ricerca di Remo Bianco, artista instancabile, per tutta una vita in bilico tra schegge di memoria e frammenti materici, raccolti, conservati, imprigionati per contrastare l’effimerità inesorabile del tempo.

Orgoglioso ambiguo versatile sospettoso buono e generoso, di tenerezza nascosta, affettuoso amico. Pensieroso. Sempre in agguato. Negligente smemorato complicato superstizioso irreale e pazzo. Artista vero attore vero architetto di sorprese, inventore geniale impenetrabile immensurabile inscandagliabile segreto. Enigma umano per eccellenza: Remo Bianco.
— Helmut Zimmerman

Chi è Remo Bianco: ricordi fissati nel tempo, futuro precorso

Dal suo studio in via Giusti, nella casa a ringhiera che lo ha visto nascerà e accoglierà per molti anni, Remo Bianco catalizza un flusso inarrestabile di energia creativa che invade la Milano del boom economico. La città stessa è città fucina creativa vibrante e internazionale eppure, allo stesso tempo, Bianco la vive ai margini, interagendo con essa ma prolifico nel suo isolamento creativo, spesso in anticipo sui tempi.

Era molto gentile. Ciò che era veramente interessante nella sua come dire… “vita”, era il fatto che fosse qualcosa che non poteva definirsi nè propriamente Arte Povera, ma neanche espressionista, era molte cose differenti. Io penso fosse troppo in anticipo per il suo tempo.
— Marina Abramović

Da giovane, incontra e frequenta Filippo De Pisis e, grazie a questo incontro, inizia a inserirsi negli ambienti artistici, scoprendo anche influenze dall’Impressionismo a Picasso, viaggiando negli Stati Uniti e scoprendo Pollock, fino alla frequentazione della Galleria del Naviglio. Proprio in questo luogo si lega a nomi quali Carlo e Renato Cardazzo, al movimento nucleare e Lucio Fontana, per approdare Beniamino Joppolo e di Pierre Restany del Nouveau Réalisme. Tuttavia, pur essendo inserito nel giro, ne resta ai margini, per non soffocare, per elaborare da solo la propria ricerca.
Forse per questa spiccata individualità, l’approccio con l’arte di Remo Bianco è sempre straniante: non c’è una precisa cronologia, una evoluzione da incasellare in un percorso. D’altro canto, proprio questo affascina: un percorso creativo debordante, senza definizioni, senza costrizioni tematiche o stilistiche. Per dirla con un termine: eclettico.
Remo Bianco non ha paura di amdare oltre i confini disciplinari e di tuffarsi in esperimenti materici, tracciando sentieri nuovi, con il peso della responsabilità che l’indipendenza richiede.

Se non sperimenti, non puoi conoscere nuovi territori. Ma se sperimenti, puoi anche sbagliare. Lui non aveva paura di sbagliare o di cambiare da un mezzo espressivo all’altro.
— Marina Abramović

Così, Bianco diventa una figura unica nel suo tempo, estranrea alle correnti ma profondamente inserita nella contempoiraneità. Oggi, proprio nel centro della sua Milano, con oltre 70 tra opere e documenti come fotografie, manifesti, articoli di giornale, la mostra Remo Bianco. Le impronte della memoria. consente di avvicinarsi un po’ di più a questa figura.
Ed è possibile farlo proprio grazie alle parole di lei, la già citata, Marina Abramović, che lo incontra nel 1977, quando è in Italia con Ulay, all’epoca della performance Imponderabilia.

Al tempo aveva tre studi pieni di opere in diversi posti a Milano, non ricordo dove esattamente, la mia memoria non è buonissima. Mi ricordo che mi piacquero moltissimo i suoi Quadri Parlanti e le sue Sculture calde.
Era molto competente sulla storia dell’arte italiana e sulla filosofia e abbiamo avuto bellissime conversazioni. Era davvero un’amicizia tra due giovani artisti e qualcuno di affermato. Gli piaceva il nostro lavoro. Lui capiva il nostro lavoro. La sua generazione di artisti non pensava fosse arte al quel tempo. Gli altri, al contrario, erano molto arroganti. Dicevano “questa è arte?”, “ma questo non è niente”, “sono c…e”. Lui invece non lo pensava. Capiva che non facevamo compromessi. E questo per noi era molto importante perchè credevamo in quello che stavamo facendo

— Marina Abramović

“L’immenso edificio del ricordo”: le opere di Remo Bianco

Nelle incessanti sperimentazioni stilistiche e ricerche espressive, Remo Bianco è immerso ogni giorno della sua vita in ciò che Marcel Proust definisce “l’immenso edificio del ricordo”. Ogni oggetto, per quanto piccolo, ogni briciola di quotidiano diventa per irrinunciabile, parte di un infinito catalogo da costruire con dedizione caparbia. Ecco allora fissare ciascuno di questi tasselli della memoria incastonati nel gesso, sepolti sotto la neve artificiale, rinchiusi in sacchetti di plastica, riflessi in quadri dorati.
Le opere tridimendionali, apprezzate da Lucio Fontana, rappresentano la prima ricerca pionieristica, per cui spesso l’artista viene associato ai pionieri del cinema 3D.

L’arte è per me un continuo rinnovamento: l’uomo non è più maturo per l’astratto. Chi è astratto è un mistico ascetico. Io ero troppo curioso e sono così giunto alla determinazione di arrivare a un’arte improntale. Sono passato attraverso una prima forma di impronte in gesso e in plastica, poi attraverso uno studio in cui tutti gli oggetti avevano un significato per la mia vita avendo fatto parte della mia esperienza.
— Remo Bianco, 1965

Dalle tracce lasciate da attrezzi di uso comune, così come dai solchi degli pneumatici, nascono i calchi in gesso che diventano Impronte, testimonianza fissata di un attimo destinato a scomparire, di una memoria passeggera. Allo stesso modo, entrano nell’immaginario anche gli oggetti dell’infanzia e il loro ricordo fissato per sconfiggere il tempo, in una meccanica che diventa poesia. L’Arte improntale è una reazione al fluire del tempo e nasce nell’isolamento del suo studio.
Similmente, dal quotidiano arrivano i Sacchettini-Testimonianze, raccolte di oggetti di vario tipo, accomunati dallo scarso valore, a volte dalla poca attenzione prestata loro: con Bianco, diventano opera d’arte. Imbustare, del resto, è un approccio, per quanto grezzo, alla catalogazione: allo stesso modo lo è per Remo Bianco il fissare nel gesso un oggetto o il duplicare forme nella gomma. In questo modo, si possono replicare ogni volta i ricordi, per custodirli, visualizzarli.

La mia natura è una specie di negozio per le vendite al dettaglio, mi concentro […] sul frammento.
— Remo Bianco

Tutto questo fa meglio comprendere ciò che l’artista stesso ha definito particolarismo. E questa ricerca, nella seconda metà degli anni Sessanta, approda all’Arte Sovrastrutturale, che ha anche un manifesto scritto dallo stesso Bianco. Complice un nuovo materiale, la neve artificiale, ecco un percorso inedito: qualunque opggetto può essere ammantanto dalla coltre bianca, persino le persone, lo stesso artista e i suoi amici, che poi fotografa in bianco e nero, fissando per sempre su pellicola quel momento. Congelare in questo inverno particelle di vita e ricordi, consente loro di essere eterni.

Si passa poi alle Pagode tra foglie d’oro, collage e progetti visionari come i Tableaux Dorés, tra i più noti, con gli sfondi netti, anche monocromatici, sui quali sono dfisposfte le foglie oro.
Remo Bianco scopre per la prima volta l’Oriente nel 1943, quando è un mariaio, e da qui ne accoglie le suggestioni, portandole anche nella sua arte.

Esce poi dalla dimensione dell’opera con i Quadri parlanti: tele grezze, non lavorate, con amplificatori collegati a un registratore stereo 8 e a una fotocellula che, non appena entra in azione per la presenza di uno spettatore, emettono suoni, come nel celebre “Scusi signore…”. In quest’opera, Bianco si fotografa con un dito puntato, la stessa immagine utilizzata a metà anni Sessanta per una personale alla Galleria del Naviglio, che invade la città capeggiando su tutti i tram milanesi (l’attuale viralità, anticipata).
Anche in questo caso, l’impalpabilità del suono viene prelevata dal quotidiano e portata nella dimensione artistica, per poi interagire con lo spettatore, avvolgendolo nell’opera.

In fondo, il ricordo è qualcosa da cui non dci si può separare, ci avvolge ogni giorno, come appunta lo stesso remo bianco:

Ogni uomo è un grande artista e lo ignora. Basterebbe raccontasse la sua vita, con sincerità e coraggio.
— Remo Bianco

Bonus: Appropriazione della Volvo dell’Artista

Nel 1969 mi sono servito del modulo dei miei quadri dorati che avevo trasformato anche in bandiere, come di una specie di marchio o di sigla personale, araldica, sovrapponendolo a riproduzioni di altri artisti, riviste o illustrazioni già esistenti […]. Ho cercato di inserire il mio motivo d’arte là dove la vita e la realtà lo rifiutano, ricordando a tutti che l’arte ha bisogno della sua bandiera.
— Remo Bianco

C’è anche lei, l’auto che lo stesso Remo Bianco ha trasformato in un Tableau doré nel 1985. Dalla fine degli anni Sessanta, inizia il ciclo delle Appropriazioni con questo marchio, contaminando ogni tipo di spazio e oggetto, compresa la sua Volvo. L’opera è visibile al Volvo Studio Milano, Viale della Liberazione angolo Via Melchiorre Gioia, fino al 22 settembre 2019.

La mostra Remo Bianco. Le impronte della memoria è al Museo del Novecento di Milano fino al 6 ottobre.

Immagini: Tableau Doré, 1965 (in apertura); Quadro Parlante – Scusi signore; Scultura Neve – Circo cinese, 1970, 3D – Senza titolo, 1954, Collage, 1955-1956 (nella gallery).

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