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La Traviata, ovvero quanto rock è Verdi?

Senza etichette, libera, padrona di se stessa: La Traviata è indipendenza che si scontra contro il potere delle convenzioni. E Verdi, come al solito, si conferma non solo moderno, ma rock.

D’ accordo, La Traviata è l’opera che vanta il maggior numero di produzioni e rappresentazioni. Come ha sottolineato di recente un’amica: “Se vai all’opera, vai a vedere La Traviata!”. Affermazione che, all’apparenza leggera, non è del tutto sbagliata, ma non deve dare per scontato il suo valore.

Ci sono più motivi che rendono La Traviata una delle opere più conosciute e rappresentate. In ordine sparso, presenta delle parti relativamente semplici e, di conseguenza, la scelta del cast non presuppone difficoltà insormontabili; le sue arie e melodie sono poi una vera e propria calamita per le emozioni (del resto, Giuseppe Verdi nel sedurre il pubblico è un maestro). C’è però un altro motivo per cui è tanto popolare e amata: quando verdi scrive La Traviata la considera un’opera profondamente attuale: e lo è anche oggi. Anzi,  può essere occasione di riflessione sulla condizione femminile, così come dell’individuo. La sua genesi non è stata però priva di intoppi: si parla anche di questo durante l’incontro Un soggetto dell’epoca con la musicologa Gaia Varon, nel ridotto Arturo Toscanini del Teatro alla Scala

Lo scandalo (di cui Verdi se ne frega)

Premessa. Verdi non è certo il tipo da non prendere sonno per la paura di dare scandalo: contravvenendo alle regole di opera e teatro del tempo, che prevedono in scena una certa perfezione estetica, ha già messo in scena un gobbo con Rigoletto. Raccontare la storia di una prostituta non solo non è un problema per lui, ma non si cura nemmeno delle possibili reazioni di pubblico e critica. Verdi, come mi piace pensare e sottolineare sempre, è rock. Tuttavia, sa di dover fare i conti con la censura, così come ne è conscio Maria Lorenzo Piave, il suo librettista.
Proprio lui, per sfuggire alle grinfie della condanna, fa dei rimaneggiamenti al libretto e retrodata la messa in scena, ambientando Traviata non nella contemporaneità, bensì nel passato. Lo stratagemma (ovviamente) fa infuriare Verdi: l’opera deve essere contemporanea, il suo ordine è incontrovertibile. Gli attori devono essere vestiti come gli spettatori, spezzando la divisione tra palco e platea e creando un riflesso diretto, senza mezzi termini, dei fatti narrati nell’opera sulla società.
Niente male, no? Anche perché, in scena, come Verdi stesso scrive nelle sue lettere senza troppi giri di parole, egli vuole una puttana e i dettagli della quotidianità, anche quelli più abietti e meno nobili, anche quelli legati al vile denaro: una posizione non allineata con le regole teatrali e operistiche di metà Ottocento.
Non sarebbe però corretto dire che Traviata nasce per il puro gusto dello scandalo, dietro c’è ben altro: c’è un realismo disarmante, una storia di cruda verità.

La verità: chi ha ispirato La Traviata

Sul palco, La Traviata fa rinascere la storia di una persona vera: Marie Duplessis, cortigiana vissuta nella prima metà dell’800. La sua vita, tanto breve quanto avvincente, è tramandata alle generazioni successive da un libro, un dramma e poi dalla stessa opera.
La Duplessis, arrivata nella capitale francese con un passato difficile, pressoché analfabeta, e si guadagna da vivere come prostituta. In breve, conquista la città: a Parigi, il suo salotto è uno dei più influenti. Di lei, una donna intelligente e dal fascino magnetico, si invaghiscono artisti come Franz Liszt e Alexandre Dumas figlio.
Proprio questi avrà un ruolo chiave nella vicenda: è uno scrittore di denuncia, attento alla sofferenza dei deboli e degli emarginati (anche per via della propria storia personale), contribuisce con diversi scritti alla nascente presa di coscienza dell’indipendenza femminile. Quando Marie, poco più che ventenne, muore di tisi, a lei dedica un romanzo. E Dumas ha due fonti a cui ispirarsi: Manon Lescaut di Antoine François Prévost e Marion Delorme di Victor Hugo. Dalla sua penna, nasce così Marguerite Gautier, protagonista de La signora delle camelie.

La traviata (ph Brescia e Amisano)

Il reale: ovvero la donna “né puttana, né madonna”

La protagonista, al di là dell’opinione della censura e di quelli che ben pensano (per citare Frankie hi-nrg), è quindi una donna indipendente, volitiva, in grado di fare propri meccanismi sociali nei suoi confronti respingenti.
A proposito della condizione femminile, nel 1979, l’antropologa Catherine Clément scrive il libro L’opéra ou la défaite des femmes, dove le opere sono rilette in chiave femminista e che, ancora oggi, suggerisce diversi spunti di riflessione interessanti. Tra le sue pagine, lette proprio dalla Varon durante l’incontro, non può mancare un’analisi de La Traviata.
Negli anni della pubblicazione di questo testo, uno slogan fa notare che le donne non sono “né puttane, né madonne”, rivendicando quindi uno status che non le polarizza nelle due immagini di reiette della società o madri esemplari: similmente, Violetta Valery non è ascrivibile in una categoria precisa, come vorrebbe l’opinione pubblica, essendo troppo raffinata per essere una donna da marciapiede ma non abbastanza nobile per l’alta società. Violetta è innanzitutto una donna indipendente e questo (allora come oggi, peraltro) manda in tilt la bussola delle certezze di chi vorrebbe un mondo preordinato in classi definite.
A questo proposito è emblematico il duetto con il padre di Alfredo (l’amato di Violetta, a chi fosse sfuggito), Giorgio Germont:

Donna son io, signore, ed in mia casa – La Traviata (Atto II, Scena 5)

Questa vicenda è molto simile a un fatto realmente avvenuto nella vita di Verdi e trasmesso nelle  sua corrispondenza. Fulcro della vicenda è la relazione (more uxorio) con la soprano Giuseppina Strepponi, vicenda che, ovviamente, non manca di riempire pensieri e bocche di chi non ha meglio da fare che parlare della vita altrui. Lo stesso maestro, di suo pugno, scrive a un parente difendendo l’indipendenza della donna e il suo totale diritto di risiedere, ed essere signora, nella sua casa vicino a Parma, senza curarsi delle inutili dicerie.
Durante questo duetto, per l’appunto, Germont piomba a casa della Valery e le intima di lasciare l’amato, ben corazzato di tutti i suoi preconcetti. Nel corso della discussione, lei confessa di stare per morire: dunque, se è così, perché cede?
In questa scena, sembra si lavori moltissimo sull’immagine della donna il cui dovere è rinunciare, tacere, affrontare una passione nel senso (cristiano) di sacrificio. In fondo, perché Violetta cede, si sacrifica, non si oppone? Forse non c’è una risposta a questa domanda, nasce tuttavia un’osservazione fondamentale, soprattutto prendendo in considerazione un elemento base dell’opera: la musica.
Germont è toccato nel profondo, nonostante sia simbolo degli schemi sociali: sono questi il cardine dell’azione, della sofferenza, che tengono stretti i personaggi originando il vero e proprio dramma. Per questo è possibile sostenere che La Traviata non è solo il dramma della donna ma anche il dramma dell’individuo stritolato nelle convenzioni sociali, prigioniero dell’apparenza, schiavo dell’immagine.
C’è forse qualcosa di più attuale?

La Traviata, diretta da Liliana Cavani, torna alla Scala di Milano, con le scenografie di Dante Ferretti e i costumi di Gabriella Pescucci, entrambi sul mio personale altare dei geni indiscussi.

Grazie agli Amici della Scala; le immagini sono di Brescia e Amisano.

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