Indifferenza, solitudine, perdita di umanità: in “Sulla mia pelle” tutto questo emerge come un pugno e non solo allo stomaco, ma direttamente alla testa.
S ospesi, sentirsi così. Quasi che l’esposizione a quelle immagini, a quei sussurri, a quelle grida, possa in qualche modo indurre non tanto a una sospensione dei sensi, bensì all’incapacità di decifrarli. Forse, il meccanismo è più complesso; forse quelle stesse inquadrature che si susseguono in Sulla mia pelle sono in grado di creare uno squarcio profondo, nel quale gettare lo sguardo e vedere l’abisso, vicino come non mai.
E allora eccola affiorare, quella sospensione: quella sensazione di impotenza, quello scoprirsi piccoli di fronte a una crudeltà senza limiti, quel diventare, attraverso il film, non più un semplice spettatore, ma parte attiva e coinvolta, soprattutto pensante.
Tutto inizia il 15 ottobre 2009, sette giorni prima la tragica morte di Stefano Cucchi. Le ore e i luoghi sono scanditi come in un verbale, anche quelle 23:30 in via Lemonia, a Roma, dove Stefano è fermato da una pattuglia. Il tutto fino a quell’immagine fissa, gelida, che ghiaccia il tempo nel corridoio della stazione dei Carabinieri Casilina. Da quel momento in poi, il volto di Stefano, il suo corpo, saranno irriconoscibili dalle percosse che, fatto grottesco, nessuno sembra notare.
Il dolore è traditore, viene fuori piano piano.
Sono le parole che un altro fermato, in attesa del processo, dice a Stefano. In realtà, il dolore ha facce ben precise nel film di Alessio Cremonini: indifferenza, solitudine, perdita di umanità.
Già, perché il film va oltre la cronaca e persino oltre l’empatia: Stefano ti guarda dallo schermo, ti afferra e coinvolge, preda di una spirale di dolore a cui è impossibile essere indifferenti. Così scuotono il terrore di denunciare, l’assenza dei cari, la mancanza di fiducia nelle istituzioni, nei tutori della legge, negli avvocati e persino nei medici. Negli altri.
Sulla mia pelle non è un documentario e non è nemmeno la ricostruzione di un caso di cronaca, va oltre la denuncia, perché colpisce non tanto nella pancia, quanto nel pensiero.
Un’ora e quaranta minuti per riflettere su un uomo, su noi stessi. Sulle dinamiche tossiche del mondo che ci circonda, sulla deriva della fiducia negli altri, istituzioni e persone, sull’indifferenza e sulla totale assenza di responsabilità che, dal quotidiano, arriva ai vertici.
Sull’indifferenza.
Fatevi un’idea.
Dice Alessandro Borghi in diverse interviste: e questa è la chiave di tutto.
L’unica idea che sembra emergere è un angosciante senso di vuoto, tra la voce di Stefano che sfuma nel buio e il freddo dell’obitorio, un vuoto che esce dallo schermo per entrare nelle ossa, che prende vita nelle registrazioni originali del suo interrogatorio e scivola sui titoli di coda, parole bianche su sfondo nero.
Quello stesso senso di vuoto, con l’accendersi delle luci in sala o nel salotto di casa, si anima piano piano, quasi a ribellarsi, a chiedere che i caratteri su fondo scuro si fermino, che la storia si riavvolga con una seconda possibilità, si animi in un nuovo sussurro, ma non è così.
Al cinema, la sala è buia, le uscite di sicurezze sembrano lontane. A casa, nessuno parla. Ovunque ci si trovi, l’umanità sembra lontana.
Torna quella frase, “Fatevi un’idea”. Sul film, sulla morte di Stefano Cucchi, sulla lotta e la tenacia della sua famiglia. E su noi stessi, allo stesso tempo vittime e carnefici dei nostri tempi.
Stefano gli occhi non li riaprirà mai più.
Noi sì. Con l’interesse, la partecipazione, la sensibilità, il pensiero e le opinioni, le idee e le azioni: è nostro dovere.
Sulla mia pelle è stato il film d’apertura della 75° Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, nella sezione Orizzonti, il 29 agosto 2018. Qualche giorno dopo, il 12 settembre, è online su Netflix e nei cinema italiani, con distribuzione Lucky Red.
Immagine in apertura tratta dalla cartella stampa Lucky Red.