Musiche trascurate, pagine di libri diventate parte del quotidiano: la Scatola Nera non compie un’operazione filologica o nostalgica, bensì un gesto di saggezza, quello di osservare la realtà attraverso il filtro della storia.
una scatola nera che resiste allo scorrere del tempo, agli urti e persino all’oblio, inossidabile: ecco l’unione di Giacomo Carlone e Luca Barbaglia, produttore il primo, musicista e autore il secondo, uniti da una decennale amicizia. Con loro, a intraprendere un lungo viaggio tra suoni e parole a ritroso nel tempo e libero nello spazio, il pianista e saxofonista Gaetano Pappalardo e il chitarrista Simone Sigurani.
Il viaggio, si diceva, attraversa i suoni del tempo, risalendo fin negli Stati Uniti del XIX secolo per approdare all’oggi, rispolverando stili, assorbendo lezioni e donando vigore contemporaneo a un ampio patrimonio. Se questo avviene per la musica, lo si nota anche tra i versi, un intreccio di rimandi e citazioni, da Euripide a Pasolini.
La Scatola Nera non si limita tuttavia a un’operazione filologica o nostalgica, quanto piuttosto approccia il valore della memoria per filtrare il presente, rielabora linguaggi, sonori e letterari, patrimonio comune per raccontare e capire la contemporaneità. Ne è un esempio il brano Terra senza pioggia, che scivola sul ragtime facendo riaffiorare un passato lontano, impolverato tra i graffi della puntina sul disco, un brano diviso in quadri che raccontano le storie dei personaggi, oppure Tekeli-li, parola coniata dal genio di Edgar Alla Poe, una ballata acustica che, nella sua impronta letteraria, è gemma del presente.
Le influenze letterarie della Scatola Nera
Luca Barbaglia racconta la letteratura che scorre nel disco
«Influenza letteraria è una bella espressione, ma solo se la si guarda da vicino: in-fluere in latino significa scorrere dentro, insinuare, inondare. Ha in sé qualcosa di acquatico e di liquido, che ci parla di acqua e di contagio. Racconta la capacità della fantasia di invaderci e di possederci, in una dinamica che è a metà tra la possessione e l’annegamento.
Partendo da questa idea, mi rendo conto che la letteratura che più mi ha contagiato durante la stesura di questi testi è una delle tante letterature di genere – degenere per alcuni – i racconti di mare: dove si trovano acqua e contagi se non sul ponte del Pequod, del Grampus, nei piccoli porticcioli assolati di Simenon, sulle navi di lebbrosi dei racconti di London o sulla barcarola di Lord Jim, la Patna?
Mi viene da fare questa premessa per evitare quella dinamica che uno dei miei scrittori preferiti, Lawrence Durrell, descrisse così bene nel primo volume, Justine, del suo Quartetto di Alessandria: racconta di aver tenuto una lezione di letteratura per le buone signore borghesi della città, speranzose di ricevere una piccola trasfusione culturale. L’influenza letteraria a mio parere è qualcosa di molto lontano da tutto questo: è quasi inconscia, non è compiaciuta e si sposa male con i bei discorsetti da salotto “hai letto questo?” “oh no, ma ho letto quest’altro e l’ho trovato di-vino!”. Insomma, l’influenza letteraria è qualcosa che non possediamo e che ci possiede, ci porta dove vuole lei, e non siamo noi a comandarla. Infatti è difficilissimo parlarne.
In questa prospettiva posso riconoscere, ma solo adesso, perché me lo state chiedendo, che nei miei testi scorrono delle immagini che probabilmente sono nate dall’incontro-scontro della mia vita con personaggi e pagine dei libri che mi hanno accompagnato. Posso parlare però di un caso particolare. L’unico brano che è scaturito consapevolmente da un libro è proprio Tekeli-li!. Il titolo è preso in prestito da una parola inventata da Edgar Alla Poe, pronunciata da un personaggio, Nu-Nu, all’interno del romanzo Le Avventure di Arthur Gordon Pym di Nantucket. Le ultime venti pagine di questo libro, che indubbiamente si compone di molte scene romanzesche (pestilenze, naufragi, ammutinamenti, cannibalismi e tutto il repertorio), sono tra le più metafisiche che abbia mai letto, e fanno sbiadire autori più blasonati e compunti, quelli che affollano i salottini di cui sopra. Ecco, “tekeli-li” questa parola, inventata, significa “bianco” e Nu-Nu, un indigeno di un’isola del polo sud, la pronuncia disperatamente, mentre viene trascinato su una zattera verso un mare sempre più bianco e lattiginoso, che diventa stranamente più caldo ad ogni miglio, mentre uccelli bianchi volano e una strana cenere bianca piove da un cielo chiuso in una cataratta, ovviamente bianca. Non vi svelo il finale, perché un brivido non si toglie a nessuno: posso dirvi che è il bianco stesso a far morire di crepacuore il povero Nu-Nu, che mai aveva visto qualcosa di simile: “anche i suoi denti erano neri”, scrive il protagonista nel suo diario di bordo. Poe da qualche parte aveva scritto che i suoi incubi peggiori non nascevano dalla sua fantasia, ma da un’ipertrofia del suo pensiero razionale: ed è di un genio, allegorizzare questo terrore nel bianco assoluto, nell’abbaglio della chiarezza e della scoperta.
Non sono i mostri in attesa nell’oscurità, non è lo sconosciuto a spaventare, lo straniero, per dirla con Camus, ma è ciò che è ormai esaurito, chiaro e distinto a distruggerci. Questo pensiero mi ha sempre affascinato. Sono convinto però che non abbia affascinato solo me, ho accanto dei colleghi, per così dire, molto più illustri di me: penso ad esempio a Melville, che quindici anni dopo il romanzo di Poe, colorò l’incubo di Achab, il gibboso capodoglio Moby Dick, del bianco della neve. Dedicò anche un capitolo a questo tema, “della bianchezza della balena”, che ho sempre interpretato come un’esegesi lirica del libro di Poe. Borges aveva colto questo nesso e Saramago, guarda caso, in Cecità, trasforma la cecità in qualcosa di abbagliante, “il mal bianco”, come lo chiama nel suo libro più famoso. In Moby Dick vi è anche un personaggio che in qualche modo è una metafora di chi ha visto tutto, di chi è stato abbagliato dalla luce bianca della realtà. Guarda caso è nero come il carbone, come il Nu-Nu di Poe. Si chiama Pip, è un giovane di colore, che per paura salta giù da una lancia terrorizzato. Passerà giorni interi a galleggiare in mezzo all’oceano, prima che i suoi compagni lo recuperino. Quando lo ritroveranno, scopriranno che è uscito di senno, ha visto troppo, fuori e dentro di sé.
Sono certo che Bob Dylan lo abbia trasformato nel suo Mr. Tambourine Man: leggete il testo di questa canzone, leggete Moby Dick e capirete il perché (esplicitamente è lui a suonare il tamburello sul Pequod, incalzato dai suoi compagni di bordo). Queste però non sono storie che si possano raccontare, sono come identità che si ripetono e che si rispecchiano tra un libro e un altro, che condividono una familiarità: sono affinità troppo vaghe per i filologi, troppo emotive per i critici e che si riproducono solo nell’arte e nel racconto, nella fantasia e nel contagio che un buon libro sa scatenare.
Tekeli-li! Forse è la mia storia, vissuta attraverso gli occhi di Nu-Nu, di Pip, e della “donna con gli occhiali scuri” di Cecità. Oppure è quel velo bianco che copriva la statua di Iside a Sais, sotto la quale, come ci racconta Plutarco, vi era scritto: “Io sono tutto ciò che fu, ciò che è e ciò che sarà e nessun mortale ha ancora osato sollevare il mio velo”. Forse sono le loro storie vissute attraverso i miei occhi. Non lo so, e in fondo non mi interessa così tanto: so che è vero, perché l’ho immaginato.»
Il passato diventa testimonianza e lezione, riemerge dalla polvere per dare una visione inedita del presente, schegge sonore e letterarie si confermano patrimonio imprescindibile per costruire un futuro consapevole e, non meno importante, libero; perché la storia non è affatto polverosa, ma più che mai viva: quello della Scatola Nera è un gesto di saggezza.
La foto in apertura è di Camilla Bianchi.