Di quanto il cantautore di Denver si esibì in concerto al Video Sound Art di Abbiategrasso (MI), il 1° luglio 2011
S ono una figlia della suggestione, oltre che del marketing, me ne rendo conto.
Ma quando vedo un artista staccarsi dalla propria realtà corale per esplorare la sua individualità, impacchetto la mia stima e la spedisco senza ricevuta di ritorno. Nella maggior parte dei casi, quando si parte da un livello già elevato, chi ha abbastanza coraggio per esporsi in prima persona non sbaglia e il risultato è un lavoro ancora più ispirato, che va a toccare corde mai toccate prima, liberi da vincoli espressivi che risultano naturali dietro l’unione di più prospettive.
Di esempi sul mio altarino ne ho parecchi, eccome, ma uno di questi è John Grant.
L’ultimo ricordo che ho di lui inizia con un viaggio al tramonto tra le strade statali, per raggiungere il castello di Abbiategrasso e ritrovarsi con amici sparsi per mezzo nord Italia, tutti accomunati dalla stessa fede: voler attingere emozionalità dalle corde vocali del cantautore di Denver.
Il tutto in mezzo a Video Sound Art, un evento in grado di coniugare per i primi tre giorni dello scorso luglio musica e installazioni audiovisive, un po’ sulla falsariga del Pictoplasma berlinese, raccontavano gli organizzatori. Solo che qui non è la Mecca dell’universo creativo, bensì il centro del nulla padano: eppure, le anime attirate sono molte e la cornice è fuori dal tempo e dallo spazio, una specie di nicchia che trasuda creatività dove meno te lo aspetti.
E, proprio immersi tra le mura del castello, i brani dal vivo smascherano ogni artificio, la voce è l’unica dominante.
Oltre a proporre l’ultima opera prima solista e risale fino agli Czars, il cui ultimo disco risale al 2004, poco prima che la formazione si polverizzasse, con Little Pink House, divaga tra inediti composti nell’ultimo periodo della sua carriera e trasforma completamente il proprio repertorio. Il tutto in un connubio tra il pianoforte e le tastiere con il suo compagno di palco, come per (I Wanna Go To) Marz e, sebbene il parco strumentale sia scarno e ridotto all’essenziale, la voce riempie ogni anfratto, riproponendo quasi l’intero esordio da solista, Queen Of Denmark del 2010, con tanto di tracce inedite, esplorando la provincia americana e i ricordi d’infanzia, scardinano il cuore, saldando la propria anima con quella degli astanti.
Non conoscerlo è un peccato tutt’altro che veniale, non essere intaccati dalla sua poesia è cartina tornasole dell’insensibilità: sono snob in questo, ma concedo sempre la possibilità di essere preda dell’emozionalità viscerale che lui trasmette. Il dovere è dimenticarsi i supporti magnetici, vivere il cantautore attimo dopo attimo per scoprirne la sua individualità intensa.
E ora se ne viene in una sala del Dal Verme di Milano, il prossimo 10 novembre: dopo la video arte, sono i muri di un teatro milanese ad accoglierlo.
Sospiro e punto.
Originally published at missbangs.wordpress.com on October 18, 2011.