Amsterdam: ovvero, metti dei Tassisti italiani nella città delle biciclette
N on siamo certo gli unici. È facile convincere del contrario il proprio ego ma, in realtà, siamo migliaia: un brulicare di personaggi pronti a seguire ciascuno il proprio tracciato dalla casa all’ufficio e ritorno, vivendo una serie infinita di mezze tinte declinate in grigio. Poi, subentrano dei corto circuiti genetici. Una serie di scintille più o meno fuorvianti, in grado di calamitare anime affini attorno agli stessi poli. La musica è una cartina tornasole di questo fenomeno e non lascia scampo: laddove melodie e distorsioni prendono il posto del sangue, può accadere di tutto e non è possibile restare da soli. Ci sarà sempre chi soffrirà di urgenza espressiva e chi sarà pronto ad ascoltare, tutti coinvolti nello stesso marasma.
Un gran bel preambolo, roba da film.
Il fatto che nella vita vera succeda questo ed altro, è da fuori di testa. Così, può accadere che, un giorno d’autunno, ci si trovi a raccogliere la proposta di un bel giro per il concerto di una band di alcune conoscenze, come se si trattasse di un caffè sotto casa. A questo punto, 1.000 chilometri non rappresentano un bel niente e amici più cari, compagni di viaggio all’inseguimento di musiche varie ed eventuali in giro per l’Europa, si sono già messi a cercare alberghi e aerei ancora prima di aver capito la destinazione effettiva.
La sera del mio debutto al cospetto dei Taxis, gli elementi naturali non presagivano nulla di buono, in un fastidioso connubio di freddo e pioggia a secchiate.
Poi, è arrivato il powerchord dei Kinks da dietro una tenda di velluto, che è bastato scostare per acquisire lo stato di serenità di un trappista sbronzo: un po’ di venature beat, qualche scivolata ruvida nel punk, il tutto mescolato con cuore britannico. Un caleidoscopio di contrasti, insomma, che da tratto fuorviante diventa fulcro di originalità e non ti dà modo di trasmettere neppure la definizione teorica di noia ai neuroni. Tanto da conquistare chiunque passasse dalle parti del mio stereo e assicurare l’effetto catapulta in quel di Amsterdam.
Da qui, scendere dal tram direttamente a Leidsplein sembra questione di un attimo e non di quasi un anno, ed è come finire per sbaglio in una scenografia di cartapesta, dove centinaia di figuranti formicolano tra le vecchie case, tra luci fitte incastonate nelle pareti di mattoni, piste di pattinaggio, dolci, passanti, odori, colori e qualsivoglia forma di vita a frapporsi tra la piazza e il Waterhole, stretto tra pub e privé, leggermente in disparte dall’adorabile caos.
E qui arriva il bello.
Secondo gli incontrovertibili principi di un cantante dal nome coniato da quello di un gangster, i complimenti non servono un cazzo, mentre vale quella sottile miscela di masochismo e giudizio che porta chiunque si trovi a creare a starsene ad ascoltare critiche più o meno costruttive.
Non che me ne importi granché, ma di sicuro Morrissey non approverebbe il lasciare per strada la strofa di una sua canzone o il grande dio delle chitarre che almeno un paio delle sei corde saltino in aria come delle zitelle isteriche, per non parlare dell’incespicare nell’inglese e delle sbavature sui Beatles, con suoni realizzati in corso d’opera. Il tutto a prendere forma in una materia brillante e grezza, composta da quattro talenti diversi e dissimili, che ancora devono limare la propria unità.
Eppure, quello che c’è lì davanti è un fermoimmagine spazio temporale profondamente emozionante, che vede quattro personaggi trascinare con sé dell’altra parte dell’Europa un nugolo di amici, passando per i fratelli Davies per poi stringersi tra gli incroci vocali di Twist And Shout e sciogliersi nel giallo dei Coldplay, mentre una processione di olandesi li omaggia di boccali di birra e richiede canzoni quasi fossero totem da ingraziarsi per assorbirne le vibrazioni musicali.
Con una postilla da aggirare: chi si fionda al Waterhole, il sabato sera, vuole ballare e cantare a squarciagola, e i Taxis non sono l’entità più vicina al concetto di cover band esistente sul pianeta. Così, infiltrano qualche brano del disco omonimo pubblicato in estate, dalla morbida accelerata di Blind al turbine trascinante di Hidden Caravans che, per chi non fosse presente, fa svettare nei momenti top della serata l’entusiasmo di chi pesta le pelli della batteria, quasi se, fermandosi, rischiasse di togliere il respiro a chi sta davanti. Con un Grammy per il musicista, recentemente diventato papà, che tocca il suolo olandese la mattina, suona, impacchetta la sua roba e se ne torna in albergo a dormire: this is rock’n’roll, altro che leggende da bohemien impolverati.
Fuori, il freddo sale dai canali ed entra nelle ossa catalizzato dalla birra. Abbattere ogni barriera interpersonale nel caldo torrido del locale è l’unica reazione al clima ostile: al Waterhole, mentre i Taxis suonano e coinvolgono chiunque, ci si scambia complimenti nel bagno delle ragazze, si racconta chi sono questi italiani che fanno ballare, dedicano canzoni a sconosciuti e tentano di accecare persone lanciando i propri dichi in mezzo alla ressa.
Un paio d’ore dopo, mentre i musicisti camminano come degli sherpa con gli strumenti in spalla, tra autoctoni alle prese con il proprio pub crawling, tutto si è già spento. C’è chi, alle prime luci dell’alba, ha un nuovo aereo da prendere (che poi sarei io).
In poco meno di 36 ore passate accanto ai polder, si sono susseguiti personaggi improbabili, quartieri a luci rosse, pescherie, shopping tra mercati, vento gelido, scatti in analogico e gatti da guardia, senza chiudere occhio e battere ciglio, a costruire uno dei ricordi indelebili, in un modo o nell’altro marchiati a fuoco nell’animo di ciascun protagonista.
A ricordarci in che modo qualsiasi cosa si dissolva, quando è la musica che si ama più di se stessi. E che poi, tutto il resto è noia.
Originally published at missbangs.wordpress.com on December 15, 2011.