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Ovvero come scoprire una rivoluzione dell’arte contemporanea tra un palazzo rinascimentale e un complesso industriale, grazie alla Fondazione Burri.

Un’ opera d’arte incastonata nel paesaggio: ecco come appare la Fondazione Burri agli Ex Seccatoi del Tabacco, a pochi minuti dal centro storico di Città di Castello. Si svelano così, come un monolite arrivato lì, nel verde delle colline, da un altro universo, eppure in una pacifica armonia con il paesaggio intorno.
Del resto, è lo stesso Alberto Burri, alla fine degli anni ‘70, a prendere in concessione questo luogo e trasformarlo. Lo spazio è talmente grande da sfiorare l’inverosimile e, nel negli anni, ha conosciuto anche un momento drammaticamente legato alla storia italiana: quando, dopo l’alluvione di Firenze, sono stati messi qui ad asciugare i libri annegati nelle acque torbide dell’Arno.
È insomma l’artista stesso a trasformare la struttura in una vera e propria creazione artistica, confermando il rapporto di Burri con il territorio, i luoghi dell’arte, la materia stessa e a renderlo uno dei più grandi artisti contemporanei.

L’esaltazione della materia: chi lo capisce, è un poeta

Nonostante questo, non è una storia del tutto semplice quella dell’artista: fin dagli esordi, i critici non lo capiscono e il pubblico spesso nemmeno. C’è però, e forme non a caso, c’è chi lo comprende immediatamente: i poeti, in qualche modo coloro che puntano all’essenza senza perdersi tra le sovrastrutture.
In effetti, quella di Alberto Burri è poesia della materia: nel corso della sua carriera, utilizza tessuti, plastiche, pitture, tele di sacco, legno, cellotex, cretti, pietre pomici e altri materiali. Non solo, la sua estetica presuppone infatti una non violenza nel lavoro: usa sì ogni tipo di materiale, ma senza forzarne le caratteristiche, che anzi mantiene intatte e conduce agli estremi espressivi. Ad esempio, cuce i sacchi con punti precisi (è medico, dettaglio da non dimenticare), applica la colla sul legno, saldature sul ferro, combustioni su carta e plastica. Inoltre, gli stessi materiali sono impiegati come colore, per ricreare le differenti tonalità cromatiche nelle composizioni.
Se tutto questo non è stato sempre apprezzato, o compreso, oggi le opere di Alberto Burri sono esposte praticamente in tutto il mondo, dalla Tate Modern di Londra alla Fondazione Prada di Milano, passando per piccoli musei nei luoghi più remoti.
La storia comincia tuttavia qui, in provincia di Perugia, e non può che trovarsi nella sua Città di Castello la chiave per scoprirlo, anche perché è lui stesso a curare la Collezione Burri a Palazzo Albizzini e la già citata esposizione presso gli Ex Seccatoi del Tabacco. La Fondazione Burri è infatti voluta dall’artista stesso e vede la luce alla fine degli anni ‘70.

Tra le sale di Palazzo Albizzini: il rinascimento di Burri

E dove inaugurare la sede della Fondazione Burri se non in un luogo così legato al territorio? Palazzo Albizzini ha una storia antica di secoli, lo rivelano subito le sue architetture rinascimentali fiorentine, pertanto non può che rivivere dedicando i suoi spazi all’arte. Qui sono custodite 150 opere realizzate dal 1948, anno della prima personale di Burri a Roma, fino alla metà degli anni ‘80: pitture, e sculture, cretti ma anche bozzetti e modelli di scenografie.
Camminando tra le sale del palazzo, si è così immersi nel percorso artistico di Burri, come lui stesso predispone per essere raccontato. La sede apre al pubblico nel 1981 e da allora, nel bianco delle pareti spoglie da stucchi e orpelli vari, emergono le linee delle volte a crociera o le pietre dei camini, intervallando le opere dell’artista.
Ci si trova così a pochi passi da Nero 1, che rappresenta la volontà di Burri sia di rinunciare al tridimensionale sia di ridurre l’uso del colore al minimo, introducendo i visitatori a un lungo percorso a tutti gli effetti rivoluzionario, per l’autore stesso ma anche per l’arte contemporanea.
In SZ1 ad esempio compare un sacco utilizzato dagli Stati Uniti per inviare aiuti alimentari all’Europa e subito emergono due innovazioni: per la prima volta, nel genere pittorico, compare la bandiera a stelle e strisce, battendo in anticipo la pop art; inoltre, è utilizzato sì il collage (come hanno già fatto ad esempio i dadaisti) ma in un contesto pittorico, diluendo l’una nell’altra materia e parti dipinte.
Il Grande Bianco del 1952 è invece l’inizio della stagione dei sacchi e qui arriva un’altra anticipazione: nella prima metà degli anni ‘50, Robert Rauschenberg, il fotografo e pittore, è in Italia per delle mostre personali e fa visita a Burri. Quando torna in America, realizza i suoi combine paintings: coincidenze?
Sono proprio i sacchi a creare scandalo e forse non è così semplice immaginare, nei già citati anni ‘50, critici e pubblico trovarsi davanti a queste opere, così lontane da ogni sensibilità, inedite per tema e lavorazione. Quello che succede, quasi sempre e in ogni periodo storico, quando un artista scardina le convinzioni precedenti introducendo qualcosa di nuovo (chiedere ad Auguste e Louis Lumière alla prima proiezione o a Bob Dylan quando ha deciso di elettrificare la sua chitarra). Ad ogni modo, questo è anche uno dei periodi più prolifici di Burri e le testimonianze sono disseminate su ogni parete.

Basta poi scendere le scale della Fondazione Burri, per ritrovarsi nelle sale dedicate ai cretti: qui si innalza il monolite Grande Ferro, realizzato nel 1980, poco distante dalla maquette di un’opera monumentale, il Cretto di Gibellina: questa piccola città siciliana è legata a un nome che è una ferita nella storia del Paese, quello del Belice. È stata infatti interamente distrutta durante il terremoto e il grande cretto bianco, nel centro della Sicilia, ricalca l’antico centro abitato, diventando non solo un monumentale progetto di land art, ma anche un’opera d’arte viva e memoria presente.
Sempre qui, sono raccolti i bozzetti delle scenografie, come quella del Tristano e Isotta andato in scena a Torino, ma anche lo studio per il Teatro Continuo di Milano, installato al Parco Sempione durante la Triennale del 1973. In occasione del centenario della nascita, è stato (non senza le solite polemiche) ripristinato.
Innovazione, creatività, rapporto con il territorio, quindi, ma a Palazzo Albizzini è presente anche un dettaglio non trascurabile, per la precisione in Rosso 1950: per la prima volta, compare qui il rosso cadmio, fondamentale per Burri e così presente nei grandi cicli pittorici esposti agli Ex Seccatoi del Tabacco.

Ex Seccatoi del Tabacco: le scatole cinesi dell’arte

Trascorrono nove anni dall’inaugurazione della Fondazione Burri a Palazzo Albizzini quando, nel 1990, un altro luogo espositivo accoglie nuove opere di Alberto Burri: bastano pochi minuti per raggiungere gli Ex Seccatoi del Tabacco, 12.000 metri quadri di arte contemporanea nel mezzo del verde: cosa chiedere di più?
Sono conservati qui, in una vera e propria cattedrale moderna, i grandi cicli pittorici e le sculture realizzate dall’artista dal 1974 al 1993. E sempre qui, esattamente come a Palazzo Albizzini, è possibile afferrare l’influenza dell’artista, senza trascurare alcuni spaccati sulla dialettica con un critica spesso ancorata troppo al largo. Alle pareti sono appese le opere in cellotex, già usato da Burri come supporto, ora protagonista di interventi con incisioni, pitture e altre lavorazioni. Lo spazio immenso, come già accennato, accoglie i grandi cicli pittorici, tutti insieme, uno dopo l’altro, trasformati ciascuno nel movimento di una grande, unica sinfonia.
È presente ad esempio Sestante, esposto agli ex cantieri della Giudecca di Venezia nel 1983 e realizzato con colori acrilici: anche in questo caso, una tecnica già utilizzata dall’artista, ma che qui scopre infinite combinazioni di forme e colori che non si ripetono mai, un continuo caleidoscopio, a dimostrazione delle potenzialità infinite e ipnotiche di una tecnica semplice.
Ci sono anche due cicli strettamente legati tra loro, sia a livello concettuale sia realizzativo: Annottarsi (Up To Nite) e Non ama il nero. Il primo viene definito un balzo in avanti nella ricerca dell’assoluto da parte dell’artista, nei suoi contrasti tra neri lucidi e opachi; il secondo è una risposta ai critici che, commentando Annottarsi, lo hanno ritenuto un arresto alla carriera di Burri (ed è un titolo stupendo, no?). In realtà, l’assoluto viene raggiunto tramite la purezza del colore, le forme essenziali, la rigorosa austerità.
Se non va dimenticato che anche i giardini accolgono delle opere, come Grande Ferro U, i sotterranei non sono proprio da sottovalutare.
Qui ha sede l’opera grafica permanente, con lavori dal 1957 al 1994: ed è meglio non metterla in secondo piano o relegarla nell’universo degli studi preparatori di creazioni più celebri, come spesso capita. Si tratta di duecento opere che evidenziano non solo un percorso artistico, ma pure la poliedricità dell’autore.
Qui è possibile immergersi poi nella nuova area multimediale e documentaria, dal pittoresco nome Burridocumenta: sono raccolte testimonianze che vedono incontri con altri artisti e critici, ma anche partecipazioni a rassegne e mostre personali, in un’esperienza da vivere attraverso immagini, video, locandine, articoli e tutto quanto. Sempre qui, sono raccolti i filmati e le registrazioni audio delle prime teatrali per cui Burri ha realizzato le scenografie, mappe interattive che proiettano tutti i musei del mondo in cui si trovano le opere. Ci sono anche due sale cinema, la cui programmazione prevede diversi documenti che esplorano le opere come Il Grande Cretto di Gibellina di Petra Noordkamp o focalizzati sulla figura dell’artista, vedi Alberto Burri. Il tempo dell’arte di Stefano Valeri, senza dimenticare il territorio come Alberto Burri e la sua città di Matteo Moneta.

La fine del percorso alla Fondazione Burri

La Fondazione Burri, con i suoi musei, è da considerarsi l’opera ultima dell’artista, si legge sulle guide e dice chi si prende cura di queste strutture.
Ciò che non può passare inosservato, è che Alberto Burri ha trascorso una vita dedicandola all’arte, rielaborando in modo proprio tecniche e materiali, esponendo in luoghi blasonati come il Guggenheim di New York e donando nuova vita a paesi remoti nella valle del Belice. Alla luce di tutto questo, forse visitare i suoi due musei non è semplicemente vedere scorrere una rassegna di opere davanti ai propri occhi.
Piuttosto, è afferrare i contrasti di un artista in bilico tra un profondo senso di appartenenza alla storia e uno stretto legame con la materia, e la vocazione all’andare oltre. Riuscendoci come? Ad esempio, utilizzando una tecnica antica come il collage per sfociare poi nell’impiego del fuoco e creare una piccola rivoluzione, approcciando il monocromatismo nella sua ricerca pittorica, senza ricorrere alla facilità del colore. Similmente, anche la bidimensionalità che tanto ama è in antitesi con la padronanza dello spazio che dimostra nella realizzazione delle scenografie, così come in opere monumentali.
Creare è l’unico modo che abbiamo di lasciare qualcosa di noi al mondo, anche dopo la vita terrena, di restare vivi: e questo ha fatto Alberto Burri, dando vita, oltre alle stesse opere, a legami con persone e territori, lasciando la propria impronta tra le stanze dei palazzi e i saloni di vecchie industrie, andando oltre la contingenza del tempo per restare lì. In eterno.

Un ringraziamento doveroso allo staff della Fondazione Burri (www.fondazioneburri.org) per i materiali e la disponibilità.
Grazie anche a Martina e Matteo.
La foto in apertura è stata scattata agli Ex Seccatoi del Tabacco di Città di Castello (PG).

Samantha Colombo

Sono un'entusiasta delle parole per professione, etnomusicologa di formazione: scrivo, su carta e online, aiuto le persone a esprimersi attraverso la scrittura e navigo serena nella SEO editoriale. Un paio di cose su di me? Nell’anno della mia nascita, i Talking Heads pubblicano «Remain In Light» e la Cnn inaugura le trasmissioni.  Ho una newsletter, i Dispacci, e il mio primo romanzo è «Polvere e cenere».

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