Con Ilaria Spadaccini, autrice della raccolta di pensieri e poesie Papavero bianco, parliamo di dolore e speranza, di poesia e di come la scrittura possa aiutare a fiorire di nuovo, anche su terreni devastati.
I libri, si racconta, non arrivano mai per caso nelle nostre vite. Accade soprattutto quando, tra pagine e inchiostro, si cela un lavoro di cesello di emozioni, eventi e visioni che diventa universale. Ecco quanto accade con Papavero Bianco. Storia di una consolazione, raccolta di pensieri e poesie firmata da Ilaria Spadaccini, con le illustrazioni di Giuliet Françoismarie: un libro a tratti abissale, d’improvviso folgorante, un cammino attraverso dolore per la perdita, rabbia, ricerca di una ragione, per approdare a una lucente – e reale – speranza.
Con l’autrice, si è parlato della forza dirompente della scrittura (e della lettura), di poesia, speranza e del grande rispetto che dobbiamo tutti, nessuno escluso, a noi stessi.
In Papavero bianco si percepisce il senso di speranza, trasmesso da chi scrive a chi legge, cosa che secondo me lo rende un libro sentito da entrambe le parti. Non è semplice riuscire a entrare nel cuore dei lettori. Parlando subito di simboli, perché il papavero?
Quando immaginavo il mio libro tra le persone, questo era il mio desiderio più grande: vedere che può rappresentare davvero la storia di una consolazione nelle loro vite. Le illustrazioni sono state affidate a una mia cara amica e fashion designer, Giuliet Françoismarie. Volevo fosse accompagnato da un disegno minimale, che non fagocitasse lo scritto e, in quel periodo, lei stava studiando il mondo floreale. Nei disegni che mi proponeva, ho visto subito — o meglio interpretato — il fiore del papavero. Mi piace il suo nascere in posti marginali, in situazioni difficili, anche il suo essere un fiore che, con una folata di vento, perde i petali.
Documentandomi, ho poi scoperto una leggenda cinese che racconta dell’usanza, dopo una guerra, di lasciare sul campo di battaglia semi di papavero per ricordare e onorare i caduti con nuova vita. Mi piaceva l’idea di seminare delle parole su un terreno che è stato raso al suolo, per far rinascere qualcosa di bello, dare nuovo colore. E poi c’è la mitologia, con la storia di Demetra, dea della terra: Ade, dio degli inferi, si innamora della figlia, Proserpina, e la porta con sé nel sottosuolo. Demetra, disperata per la perdita, smette di occuparsi della terra e Zeus, preoccupato, fa questo accordo con Ade per consentire a madre e figlia di rivedersi. Quando Proserpina se ne va via, sul suolo nascono dei papaveri, per consolazione. Mi piacevano tutti questi significati e, inoltre, ho pensato al bianco perché il papavero bianco è spesso associato alla morte, al sonno eterno. Nel mio libro si parla molto di morte ma si parla anche di consolazione e speranza.
Proprio la divisione del libro in tre parti, legate a dolore, ribellione e amore, colpisce: è come se tu accompagnassi il lettore attraverso il dolore e oltre, verso una sorta di riscatto. Come ci insegna la vita stessa, in mezzo ai momenti bui ci devi passare, li devi affrontare.
La divisione è fatta per dare una mano al lettore e per far evincere il messaggio che volevo raccontare, dando un ordine preciso. Ci sono dolore, amore, rabbia intesa come “voglio ribellarmi a questa vita che mi ha posto dinanzi a delle tragedie e voglio sperare che qualcosa di buono sia ancora possibile”. In realtà, prima ho messo su carta le emozioni senza filtro, come mi venivano nella pancia e nella testa. Solo a fine raccolta ho notato un progetto, più di 150 poesie con delle mappe tematiche che parlavano appunto di morte, speranza, amore inteso come amore famigliare, per sé stessi, non solo prettamente romantico. Da qui, la divisone in gruppi, dove ho visto un’evoluzione nei sentimenti descritti, evoluzione che a volte ho attraversato anche nella stessa giornata, momenti di sconforto per la perdita alternati alla ripresa.
Ho scritto Papavero bianco in seguito a due gravi lutti, ho infatti perso prima mio padre e poi mia sorella nel giro di due anni: la morte di un genitore, per quanto sia prematura, la affronti con la consapevolezza che questa figura, prima o poi, non ti accompagnerà più, la accetti e impari a conviverci; la morte di mia sorella è stata, ed è tutt’ora, molto difficile da accettare, l’ho vissuta proprio come un’ingiustizia. Così, vivevo nella stessa giornata degli sbalzi d’umore che buttavo su carta e questo mi ha aiutato tantissimo a elaborare quanto stava accadendo. È stata una valvola di sfogo, perché la scrittura ti dà un modo per dare voce a quelle sensazioni che sono spiacevoli e cui tutti pensiamo di sfuggire, giorno dopo giorno. Cerchiamo sempre di svincolarci da dolore e tristezza, usciamo, parliamo con un amico, ascoltiamo musica, ma la scrittura ti dice che è inutile fare come se niente se fosse, che è normale tu stia soffrendo: devi passarci attraverso e non rendere questo dolore vano. Con Papavero bianco ho cercato di dare dignità al mio dolore e non renderlo vano può essere un’esperienza con cui confrontarsi per tutti quelli che soffrono; anche perché nel dolore c’è grande emarginazione, ci si sente veramente soli.
Quando ho aperto Papavero bianco per la prima volta, è stato su questi versi: “parla di qualunque cosa: / di rabbia, dolore, oppure d’amore / purché quello di cui tu parli / tu l’abbia dentro”. Ci vuole molto coraggio per farlo, a volte è facile soffrire perché ti senti un po’ unica nel tuo dolore. Nelle tue poesie c’è anche molto amore per sé stessi, tocchi le corde che ti ricordano come la prima persona che dovresti amare sei tu.
È un monito che faccio a me stessa. Quando dai amore, pur incondizionato, si crea un circolo vizioso: ami gli altri e ti attendi gli altri ricambino, ma rischi di avere aspettative troppo alte, perché ognuno ha il suo modo di amare. Oggi prendo ciò che viene con il massimo del sorriso e dell’apertura, nel mentre cerco di amarmi e accettarmi di più. La base è tutta qui, nell’accettazione di sé stessi, ma troppo spesso, soprattutto noi donne, cresciute con il retaggio dell’occuparsi degli altri, dell’essere relazionali, del prendersi cura, ci mettiamo spesso dopo. Queste poesie sono un monito: per ricordare quanto sia importante, prima di dare amore agli altri, darlo a noi, perché ci consente di vivere con più pienezza e consapevolezza.
E non è un caso siano le poesie a farlo. Credo che la poesia riesca a parlare alle corde nascoste che abbiamo, a risvegliare emozioni, a darci quegli input più profondi. Secondo te, che ruolo ha la poesia nelle nostre vite?
Ho sempre letto molta narrativa, poi un giorno qualcosa è cambiato: quando mi hanno regalato un libro della poetessa Rupi Kaur, da lei ho preso tantissima ispirazione. Credo sia stata una delle prime a promuovere la instant poetry, che spopola sui social, un modo per condividere delle poesie: secondo me è una cosa bellissima, anche se molti la criticano, soprattutto i più rigidi. Credo abbia invece avuto il merito di avvicinare molti nuovi lettori, che magari prima ritenevano la poesia lontana dalle loro corde per vari pregiudizi. Ovviamente la mia prima dea assoluta è Alda Merini. Per quanto riguarda Papavero bianco, credo sia più una raccolta di aforismi, pensieri e qualche poesia. In generale, credo che il senso della poesia sia di dare più spazio al lettore, perché la narrativa ti fa viaggiare, ma in un mondo prestabilito, nato dentro la testa dell’autore. Ha un potere catartico, certo, ma è un po’ passiva; la poesia invece la vivi in prima persona, un po’ come per le canzoni, la interpreti secondo le tue emozioni e il tuo vissuto. La forza della poesia è questa: lasciare libera l’interpretazione, dare un ruolo a ogni singolo lettore con la propria esperienza.
A proposito di parole, a livello grafico, in Papavero bianco si notano le minuscole, l’assenza di punteggiatura, il fatto che tu abbia messo in corsivo una sorta di titolo alla fine dei versi, o meglio, un pensiero che chiude l’aforisma: come nasce questo stile?
Oggi, fare qualcosa di nuovo è, non dico impossibile, ma abbastanza difficile: il format è stato preso d’ispirazione da Kaur. Ho letto la sua prima raccolta quando ho ricevuto la notizia che mia sorella era in fase terminale e mi sono innamorata del suo stile. Come ti dicevo prima, ho trovato così un modo per esprimere me stessa e il mio dolore. In più, sempre le sue poesie, erano accompagnate da disegni che mi davano altri stimoli rispetto a ciò che le parole evocavano, altre immagini, altri punti di vista; così, quando ho cominciato ad appuntare i miei aforismi, mi sono resa conto di essere stata molto condizionata da lei. Credevo che quello fosse il modo più autentico per esprimere al meglio ciò che stavo vivendo. All’inizio avevo scritto con la punteggiatura corretta, poi ho deciso lasciare scorrere le parole per dare un’idea di circolarità, perché ritengo che il libro sia circolare: si può leggere anche solo aprendo a caso le pagine e lasciandosi ispirare da ciò che ci si trova davanti. Siamo tutti in questo circolo di dolore, ribellione e amore, come onde che si infrangono sugli gli scogli e poi ritornano ancora.
Difatti è molto coinvolgente leggere, lasciarsi trasportare da questo effetto circolare, come lo hai chiamato tu. È importante come lo stile costruisca l’immaginario, insieme alle illustrazioni.
Ho una capacità immaginativa importante! Non avevo solo parole in testa, mentre scrivevo, ma anche delle immagini. Sono però una pessima disegnatrice, quindi ho affidato il tutto a chi ha interpretato il mio pensiero: è stato un lavoro creativo a quattro mani.
E poi, nelle ultime pagine, c’è uno spazio dedicato al lettore, un vero e proprio diario dove lo si invita a “imprimere i suoi pensieri”.
Credo nel potere terapeutico della scrittura, credo siamo sempre più disabituati al dialogo, con la tecnologia, i messaggi vocali, scritti, i social, le didascalie, abbiamo perso l’abitudine a dialogare in maniera autentica e genuina. Quando si perde questa abitudine, si sta poco in contatto con sé stessi e le occasioni per guardarsi dentro scarseggiano sempre di più. Trovo che la scrittura sia un modo per comprendersi, affrontare gli spigoli e gli angoli bui. Quindi il mio invito è, se questo libro ti ha lasciato qualcosa, prova a scrivere anche tu. Se non hai mai scritto niente in vita tua, se non ti senti uno scrittore o alle medie non facevi bei temi, è una convinzione sbagliata che tu non possa scrivere: la scrittura è talmente personale, soprattutto quando si parla di diari, che bisogna essere onesti con sé stessi, non giudicare il risultato finale, ma il cammino. Volevo lasciare questo regalo affinché qualcuno avesse l’opportunità di scrivere, anche di getto, le emozioni che ha dentro: magari può essere l’esordio di un’abitudine che diventa poi più genuina. Nei miei momenti più bui, sono lì sul mio diario che scrivo per cercare di comprendere l’entità dei miei pensieri che si sovrappongono uno dopo l’altro, così vengono dipanati, li vedo, cerco di capire dove sto andando. Appuntare con una certa regolarità la propria vita è importante, perché la memoria è labile e si rischia di non cogliere le sfumature che la rendono davvero degna di essere vissuta. La scrittura, invece, ti dà questa occasione.
Ilaria Spadaccini ha scritto Papavero bianco. Storia di una consolazione, illustrato da Giuliet Françoismarie, e il romanzo Il volto della fenice, entrambi per Foschi Editore.