Il secret show a Laltalena (Milano), il 28 settembre 2010
N on che questo accada in ogni parte della galassia conosciuta, ma andare a un concerto nella metropoli milanese, troppo spesso, espone al richio di uno strano fenomeno. Quello del risalire ai tempi dell’opera di un paio di secoli fa, quando a teatro ci si andava per guardare e farsi guardare e ciò che combinavano quei fagotti urlanti sul palco passava in secondo (anche terzo) piano, coperto dallo sbrilluccicare dei gioielli e dal profumo delle cene al sacco servite nei palchetti. Una storia vecchia, insomma, un acaro nato nel velluto della tradizione borghese e insediatosi nel DNA di generazioni, ma dalla quale è possibile essere esenti. Perché la città, a volte, si fa adorare. Come quando si incappa in un secret show, un concerto dalla location ignota sino all’ultimo momento, dove l’happening si crea dando solo qualche dritta sull’artista in scena, solitamente portatore sano di talento, e sulla data. Nella serata in questione, a tentare d’ingabbiare le note è un ex capannone industriale dove oggi si scattano foto, si creano mostre e si elabora arte varia: nessun palco, solo tappeti e qualche cuscino per gli avventori, uno spazio per gli artisti e un buffet creato dagli stessi partecipanti. In poche parole, un intimo paradiso.
Tra le luci soffuse, il concerto è inaugurato dal marchio Woodpigeons, per l’occasione rappresentati solo da Mark Hamilton, accompagnato da chitarra e campionatore. In solitaria, declina in acustico le sue tracce, lasciandosi andare a qualche battuta e riuscendo a far ricordare il motivo di un amore viscerale per il Canada, fucina creativa che riesce a tenere testa al vicino e ingombrante vicino statunitense, nella quale c’è di tutto e i collettivi artistici, basati su collaborazione e scambio, sembrano deflagrare. Tra le tracce, rielaborate per l’occasione e forse per questo un po’ stranianti, ne compaiono almeno un paio dell’ultimo Die Stadt Muzikanten, peccato che la collaborazione tecnica di una cassa venga improvvisamente a mancare. Hamilton è tuttavia raggiunto, sul finire dell’esibizione, da un assaggio della band compagna d’avventura per la notte, e già si assapora la morbidezza del violoncello di Catherine Odell.
È tempo infatti, da Alberta, di fare rotta verso sud, superare il confine statunitense per arrivare nella Portland degli Horse Feathers. Dall’ultimo dei loro tre dischi, Thistled Spring, si fanno notare il singolo Cascades e Starving Robins, a evidenziare un percorso che li ha visti acquisire sempre più profondità, acquisire padronanza di un folk rock caratterizzato da da fluidità melodica e cesello del dettaglio. L’atmosfera è delicata, le pareti bianche dello studio imbrigliano un caldo vellutato, non è nemmeno necessaria l’amplificazione per i melliflui cori, poi Falling Through The Roof, dove Sam Cooper colpisce le casse con tonfi e bacchette imbottite scuote l’atmosfera: un attimo di enpasse, una brusca frenata del brano, poi si riprende con un sorriso. Accanto al violoncello, non manca il violino di Nathan Crockett, ma restano gli arpeggi acustici e nitidi di Justin Ringle a scavare in profondità le atmosfere, così come la sua voce tanto intensa e fluida.
Finisce così la notte, appena dopo l’encore con Finch On Saturday e Vernonia Blues. E si respira a pieni polmoni.
Originally published at missbangs.wordpress.com on October 4, 2010.