Di quando al Jazz Re:found di Torino un musicista ha riformulato il concetto di tempo in musica
Torino sa essere unica, è una cosa che ho imparato da almeno un paio di decenni: questa volta, lo fa per la nona edizione del Jazz Re:found, un festival da cartellone pressoché infinito che si condensa in una manciata di giorni. In questo contesto, avere la possibilità di calpestare il suolo sabaudo anche solo per una serata, vuol dire ad esempio sapere che Tony Allen ha annunciato il sold out per una sua esibizione, nelle stesse ore in cui il Teatro della Concordia di Venaria Reale viene scosso in rapida sequenza da Underground Resistance, Joe Claussell e Soichi Terada.
Tuttavia, nel turbinio di nomi, il centro di gravità ruota intorno alla Scuola Holden, l’istituto di storytelling e perfoming arts che mutua il suo nome da J.D. Salinger. Per addensare ancora di più l’atmosfera, la location sorge presso l’ex Caserma Cavalli, pittoresco edificio fondato nel XVI secolo e ricostruito nel corso del tempo, sui cui mattoni stanno per riverberarsi ipnotiche sequenze e melodie di un musicista e producer britannico.
Proprio qui arriva infatti James Holden, con un doveroso ringraziamento agli dei delle omonimie, accompagnato da una band di cinque elmenti, lui compreso: un paio alla sinistra, dove pulsa la ritmica di batteria e percussioni (o, per meglio dire, un mare di idiofoni e affini); un altro paio a destra, dove si alternano clarinetto, sax e tromba; al centro lui.
Ciò che Holden riesce a fare è alchimia pura: seduto a gambe conserte mentre traffica con Korg e computer, distilla pulsazioni elettroniche e rielabora canoni avvolgendo i battiti della sezione ritmica e le melodie dei fiati. Non è un semplice esecutore, bensì un tessitore di atmosfere.
Ascoltando gli intrecci sonori di Holden è facile ricordare come la musica non abbia confini, ma sia materia pura e nobile da plasmare, intrecciando voci strumentali dissimili e dando vita a un vero e proprio universo dove il tempo scorre in modo differente.