La storia di una donna, del potere salvifico della musica, di come l’arte stessa sia parte attiva della società: ecco perché Ma Rainey e il suo blues hanno parecchio da insegnare, soprattutto di questi tempi.
Il suo nome (d’arte) è Ma Rainey ed è conosciuta come “la madre del blues”. Qualche giorno fa, con il debutto su Netflix di Ma Rainey’s Black Bottom, la sua storia, ammantata di leggenda, è tornata a splendere. Il film, tratto dall’opera teatrale di August Wilson, afferra nella trama appena un giorno della sua vita, tuttavia rappresenta il punto di partenza per scoprire una voce viscerale, incisa in innumerevoli registrazioni, il mordente nel ruolo di artista di professione, l’influenza sui contemporanei e sulle generazioni successive, tanto quanto la vera anima del blues.
Chi era Ma Rainey, “la madre del blues”?
Con poche immagini e qualche dato incerto riguardo la sua biografia, la storia di Ma Rainey si confonde, per l’appunto, con il mito. Lei stessa racconta di essere nata in Georgia, a Columbus (sebbene in alcuni registri si parli di Alabama), negli anni Ottanta dell’Ottocento. È la musica a delineare i contorni della sua vita: si forma tra vaudeville e minstrel show, il suo talento ben presto serpeggia per tutto il Sud degli Stati Uniti portandola al successo, incontra decine di musicisti e sodalizza con i migliori, per citarne un paio, Louis Armstrong e una giovane di talento: Bessie Smith.
Oltre a salire sul palco di migliaia di concerti, assorbendo e plasmando innumerevoli stili, Ma Rainey è la prima artista di colore a firmare con una grande casa discografica, la Paramount. In appena un lustro, incide centinaia di dischi: il primo è del 1923 (con già un ventennio di esperienza alle spalle) e, quattro anni più tardi, è il momento di Ma Rainey’s Black Bottom, che dà il titolo all’opera teatrale e al film prodotto da Denzel Washington.
Il blues di Ma Rainey, che ancora oggi è possibile ascoltare grazie a queste registrazioni, non è il lamento disperato di un’anima afflitta, non c’è sconforto in lei, bensì qualcosa di più profondo, di ultraterreno che si fa carne e sangue: Ma Rainey canta con l’anima, la voce è limpida e solida, il fraseggio raffinato, lo stile duttile. Assorbe l’influenza del vaudeville, genere appannaggio dei bianchi, e la sua teatralità, sciogliendolo nel blues del Sud più profondo, mutuando senza remore gestualità e linguaggio degli artisti uomini, superando confini geografici, canoni stilistici e tabù di genere. Così canta del quotidiano, senza mezzi termini, dai tradimenti amorosi alle ingiustizie del lavoro, dalle sonore ubriacature al soprannaturale.
In qualità di professionista della musica, Ma Rainey conduce il suo ruolo con forza: è lei a pagare i musicisti della band, e a pretendere che i pagamenti siano in anticipo, senza mettere mai in secondo piano il suo talento. Si muove sicura come donna, afroamericana, apertamente bisessuale in una società che tende a schiacciare, emarginare e stigmatizzare ciascuno di questi singoli tratti. Nel blues, Ma Rainey trova compiuta la sua autodeterminazione anche se, come dice la protagonista stessa in una scena del film, interpretata da Viola Davis, il blues non è certo una sua invenzione c’è sempre stato.
Il blues e i race records, dal Delta del Mississippi alle metropoli del Nord
Il blues non è semplice intrattenimento. Scandisce la vita comunitaria, accompagnando il lavoro, nei campi così come nei cantieri delle ferrovie, alleviando la fatica, curando la solitudine, ma non solo. Il blues è l’unico strumento che le comunità afroamericane hanno per scrivere la propria storia, una storia che non sarebbe mai entrata altrimenti nei libri, di tramandarla alle generazioni successive. In più, come sottolinea il regista George R. Wolfe, c’è una forte importanza linguistica: la forza delle parole che gridano di non soccombere, passivi, all’esistenza.
In seguito all’abolizione della schiavitù, le cose non migliorano, nel Sud degli Stati Uniti, per donne e uomini che hanno creato il blues, tutt’altro. Spezzate le catene e, a livello formale, il rapporto di totale sudditanza a un padrone, è altro a essere abbattuto nella violenza più feroce, in un’intolleranza spietata: la speranza, la possibilità di disegnare un futuro in una società che non ha intenzione di accogliere chi schiavo non è più.
Sono proprio le grandi migrazioni, negli anni Dieci del Novecento, a svuotare i campi verso i grandi centri urbani del Nord, con la promessa di un destino migliore, la sicurezza di un salario, l’oblio di quella recessione che ha colpito le piantagioni. Promessa che, nemmeno a dirlo, resta disattesa: nelle città del Nord non esiste nessuna opportunità o fuga dall’oppressione e l’innesco emotivo, oltre che sociale, è deflagrante. Il blues non può che appropriarsene, ma non come catarsi: è denuncia.
Inoltre, quando il blues arriva al Nord, si scontra non solo con un contesto sociale diverso, ma pure con un diverso approccio alla musica, differente dalle aggregazioni spontanee o dagli spettacoli itineranti: il mercato discografico.
In particolare, gli anni tra i Venti e Quaranta sono quelli dei race records, che presentano una zona d’ombra non indifferente: se da un lato diventa infatti possibile incidere e distribuire la musica afroamericana, dietro le quinte gli artisti sono sottopagati, senza alcun riconoscimento, tantomeno delle royalties. Inoltre, la cultura riflette la segregazione delle società: i race records sono venduti nei negozi riservati ai neri, sono un prodotto preconfezionato con uno specifico interlocutore, l’obiettivo non è certo quello di diffondere blues, jazz e via dicendo. In questo contesto, l’industria discografica bianca, in crisi dopo l’avvento della radio, annusa un’enorme opportunità di guadagno. Ne è un esempio Bessie Smith, che ha fatto piovere milioni di dollari nelle casse della Columbia, vedendone ben pochi nel corso della vita.
La storia di Ma Rainey, quella vera, che si intravede nell’opera teatrale e nel film che ne è tratto (per inciso, con interpretazioni magistrali), è tutto questo: la storia di una comunità, di una donna, del potere salvifico della musica, di come l’arte stessa sia parte attiva della società e diventi un atto politico, della costruzione identitaria, della coscienza di sé e della rivendicazione di libertà fondamentali per donne e uomini. Una lezione che, a quasi un secolo di distanza dal debutto discografico della madre del blues, non sembra poi così chiara ed è bene, come dire, ripassare.