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È la montagna che domina l’isola d’Ischia, immersa nella natura, custode di miti e punto da cui dominare uno dei panorami più belli del mondo.

 

Li immagino, gli eubei. Quando approdarono sull’isola, si trovarono di fronte alla meraviglia: una terra completamente avvolta dalla macchia mediterranea, nel mezzo di un mare un mare caldo, che ribolle dalle viscere della terra. Come biasimarli nel voler fondare qui la loro colonia, dimenticando la strada del ritorno verso la Grecia?
A dirla tutta, non so perché mi siano venuti in mente proprio loro, che non furono nemmeno il primo popolo a stabilirsi qui. Forse per la prima idea antica ripescata nella testa, forse perché resero storicamente reale il viaggio intrapreso da Ulisse nelle parole di Omero o forse, ancora più probabile, per l’idea che qualcuno possa dimenticare persino la propria casa per lasciarsi conquistare da quanto lo accoglie qui.
Comunque sia, sbarcare a Ischia oggi è certamente meno impegnativo che qualche secolo avanti Cristo: un’ora di aliscafo è sufficiente per raggiungere una meraviglia che nei millenni non è sbiadita. E che ricondurre semplicemente alle spiagge affacciate su un mare cristallino sarebbe riduttivo.

Lasciarsi il mare alle spalle, verso Serrara Fontana

Tornando a poche righe prima: sto pensando ai greci quando il bus arriva a Fontana, un borgo tra i più alti dell’isola. Già, perché Ischia è così: dal mare alla montagna, passando per campagne e vigneti in poco meno di cinquanta km di terra, in sostanza un universo intero racchiuso sulla superficie del Golfo di Napoli. L’autobus affollato del sabato mattina si è lasciato alle spalle il Castello Aragonese, ha attraversato con decisione biblica un set cinematografico sul lungomare di Casamicciola (nota a margine: è la seconda volta nella mia vita che incrocio Stefano Accorsi, la seconda con qualche ischitano intorno e lo prendo come un segno, anche se non so di cosa) e poi si è arrampicato sulla montagna.

Durante la salita, il Mediterraneo brilla a levante, compare l’isolotto di Sant’Angelo e presto l’orizzonte viene inghiottito dagli alberi sempre più fitti, che intervallano le frazioni sparse qua e là. Quando l’autobus scarica la nostra variopinta compagine, composta da autoctoni e viaggiatori provenienti da zone sparse nell’ecumene, c’è un silenzio irreale. E profumo di caffè.
Giunti qui, la meta è solo una: la cima del Monte Epomeo, non un centimetro più sotto. Secondo le guide e i consigli della gente di qui, una bella passeggiata di tre chilometri; addentrandosi nel tecnico, un camminata con un dislivello di 400 metri; di fronte allo stato delle cose, un viaggio catartico verso una cima erta, in apparenza inaccessibile, che si staglia sul cielo turchese. Adoro tutto questo.
Inoltre, fino a un passato nemmeno troppo remoto, lo stesso cammino veniva intrapreso in groppa agli animali da soma: era la figura del capo ciucciario a coordinare l’andirivieni di asinelli dai punti di incontro giù a valle fino alla sommità, smistando i turisti.

Una cosa non è mai cambiata: quella cima che svetta sopra l’isola, alta 787 metri, sasso più sasso meno, e lo indicano bene diversi cartelli sulla strada asfaltata che, in un attimo, finisce. Al suo posto, una mulattiera che si addentra nel bosco di castagni, dove il sole filtra a malapena in un’atmosfera che non ha nulla di reale e tutto della Contea (sì, quella Contea). Nei sentieri che si snodano tra un sottobosco sempre più fitto, altri camminatori ed io incappiamo in diversi cercatori di funghi e nel loro bottino, che non manco di importunare: è andata bene la caccia? Più o meno, rispondono, svelando nei cesti dei funghi grossi quanto la mia testa.

Ben presto, la stradina cede il posto a dei sentieri impervi, scavati nel tufo verde che rivela piano la cima. Quando la vegetazione si dirada e rimane solo questa roccia antica, ere geologiche fa adagiata sul fondo del mare, il sole abbaglia, l’orizzonte avvolge tutto di turchese e lo sguardo arriva fino al profilo di Capri. Un panorama bellissimo, non fosse che il Belvedere se ne sta sempre lassù, inarrivabile. Almeno per ora.

Di grotte nascoste, un eremo antico e il belvedere

Inarrivabile, dicevo, almeno fino a che non compare la prima meta (nonché mio personale punto di orientamento, con buona pace di stelle polari e affini), alla fine della via Militare: la Grotta da Fiore, un ristorante scavato a mano nel tufo negli anni ’60 e che oggi, dopo qualche vicissitudine, sta ancora lì. A sfamare noi audaci. E soprattutto a portare in tavola, a fine pasto, un liquore al finocchietto di quelli che ricordano il divino.
E basta attraversare la sala sul retro per raggiungere un punto dove la vista spazia verso il Golfo di Napoli e si perde poi nella spaccatura del terremoto che, nel XIX secolo, distrusse Casamicciola spaccando la montagna. A proposito di grotte, si narra che tra queste gli isolani si nascondessero da pirati, lanciando segnali di fumo alla costa.

Da qui si arriva alla chiesa più antica dell’isola, l’eremo di San Nicola. Piccola ma non inosservata, dato che ne parla il Pontano nel De Bello Neapolitano del 1459. Prima ancora, si narrava che qui sorgesse un tempio dedicato a Nettuno, parola di Filostrato, proprio lui. La cosa interessante è che, verso la metà del ‘700, qui si stabilisce un eremita degno di nota: un tale Giuseppe D’Argouth, non un religioso, bensì il capitano del Castello Aragonese che, dopo aver fatto voto al santo, si ritira tra queste rocce. E non manca di abbellire pure la chiesa!

Il bello, per usare un eufemismo, arriva tuttavia dopo, dopo essersi inerpicati sulla roccia nuda, tra gradini scavati sul picco ischitano, ed essersi issati sul punto più alto dell’isola: da qui si delineano i filari delle vigne, la baia di San Montano con le piante rigogliose del Parco del Negombo, le coste limpide e le le scie delle barche sul mare blu cobalto. Qui appare la costiera amalfitana e, poco più in là, si delineano le pendici del Vesuvio. Per rendere meglio l’idea, il poeta Alphonse De Lamartine parla di questo monte come “un luogo paradisiaco dove l’anima si innalza a Dio e dal quale l’occhio beato si espande in un panorama incantevole e meraviglioso che nessuna penna potrà riprodurre, dove si vive l’aria di un altro mondo”. Grazie, Alphonse.
Poiché è qui che finiscono le parole per descrivere la bellezza.

La leggenda: come scoprire di aver camminato sopra Tifeo

Un simile scenario non poteva che ispirare miti e leggende. Sembra, almeno secondo diversi studiosi, che su queste coste sia avvenuto il naufragio di Ulisse, poi accolto da Nausicaa, raccontato nell’Odissea.
Una delle leggende più antiche dell’isola (e ce ne sono molte, almeno tanti quanti i popoli che, dal neolitico ai fenici per proseguire poi nella storia, sono sbarcati su queste coste) riguarda tuttavia Tifeo, il gigante mostruoso presente in più fonti antiche e che, secondo alcune, sarebbe imprigionato nel ventre dell’isola. Sicuramente secondo Virgilio, che ne parla nell’Eneide: “e fin ne l’imo fondo / Ruinando si tuffa, e frange il mare, /e disperge l’arena: onde ne trema / Procida ed Ischia, e il gran Tifèo se n’ange, / Cui sì duro covile ha Giove imposto” (Libro IX, 1118–1122).
Del resto, quando gli elleni fondano qui la colonia di Pithecusa, nel VIII secolo a.C., conoscono l’epica e i miti orientali. E sono ad oggi presenti testimonianze di poemi omerici riportati su varie fonti, basti pensare alla Coppa di Nestore, sulla quale sono dipinte le vicende di Troia. La leggenda del gigante dei vulcani era molto diffusa e conosciuta dagli autori: Virgilio lo colloca proprio qui, a Ischia, confinato tra le sue rocce che proprio per questo motivo sono roventi e tumultuose.

Eppure, Tifeo non è solo distruzione, ma anche metamorfosi: Tifeo è la natura in perenne mutamento e in tutta la sua imponente maestosità. È ognuno di noi, quando raggiunge una vetta attraversando strade impervie e si lascia sopraffare da un panorama indefinibile, come quando le parole per descrivere la bellezza finiscono. E che siamo cambiati una volta scesi, quando torniamo sui nostri passi e ci voltiamo, verso ciò che è stato.

Tutte le foto sono della sottoscritta, Huawei P9.

Samantha Colombo

Sono un'entusiasta delle parole per professione, etnomusicologa di formazione: scrivo, su carta e online, aiuto le persone a esprimersi attraverso la scrittura e navigo serena nella SEO editoriale. Un paio di cose su di me? Nell’anno della mia nascita, i Talking Heads pubblicano «Remain In Light» e la Cnn inaugura le trasmissioni.  Ho una newsletter, i Dispacci, e il mio primo romanzo è «Polvere e cenere».

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