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Exile On Main Street dei Rolling Stones compie 50 anni

Il 12 maggio del 1972 esce il disco degli Stones Exile On Main Street, l’album dell’esilio, dei tormenti e della gloria.

Exile On Main Street, la copertina

È il 12 maggio 1972 e i Rolling Stones pubblicano Exile On Main Street: da questo giorno in poi, la musica ha una nuova pietra miliare.
Il disco, uscito un anno dopo Sticky Fingers, è la storia di un esilio, del blues impugnato come arma contro il mondo, per parafrasare le parole di Mick Jagger, di una band già leggendaria che, nel suo buen retiro lisergico, compone canzoni grondanti sangue e gioia, per tuffarsi nell’ignoto.

Da Villefranche-sur-Mer a Los Angeles, la nascita del disco

Le registrazioni dell’album iniziano tre anni prima della pubblicazione. Le prime note sono infatti abbozzate già ai tempi di Sticky Fingers, per approdare poi a Nellcôte, villa incastonata nel golfo di Villefranche-sur-Mer, nella Francia del sud.
Gli Stones finiscono sulla costa francese in esilio, per un problema ben poco poetico: le tasse. Se fossero rimasti nel Regno Unito, in seguito a una legge da poco approvata, avrebbero dovuto versare un’imposta riservata ai lavori ad alto reddito. Un consulente finanziario innesca quindi la strategia: un breve tour di addio e la partenza per l’esilio, fiscale, più che creativo.

Nonostante le premesse poco suggestive, le registrazioni in Francia entrano da subito nella mitologia del rock, da quando, a metà giugno del 1971, gli Stones approdano a Nellcôte. Ben presto, la villa accoglie visitatori come William Burroughs, John Lennon e il fotografo Dominique Tarlé (i suoi scatti restano una testimonianza preziosa di quei giorni); l’aria è satura dell’estasi delle droghe, le allucinazioni sono afferrate e fissate nella musica. Un caravanserraglio di volti noti ed estranei, groupie e spacciatori, famigliari e vagabondi calpesta gli antichi pavimenti e danza nell’aria tiepida e aromatica della costa. 

Tra i racconti, di ogni tipo, ci sono anche quelli più schiettamente musicali, come la genesi di Happy, che diventa poi un singolo: è lo stesso Keith Richards, anni dopo, a ricordare come la traccia sia nata quasi per sbaglio, da una jam session con Bobby Keys e Jimmy Miller, un’improvvisazione, un riff nato per caso dal mescolio di gioco e talento. 

Così, uno dei dischi più ascoltati dell’ultimo mezzo secolo prende vita tra le stanze luminose di una villa dalla storia oscura, costruita nel 1899, una perla della belle époque occupata dai nazisti nel 1940, abbandonata, poi entrata nella leggenda.
Gli Stones registrano per ore, soprattutto durante la notte, in un flusso creativo di picchi e abissi, coinvolgendo anche altri artisti. Il tutto viene poi fissato su supporto magnetico e plasmato dall’altra parte del mondo, al Sunset Sound di Los Angeles.

La critica, come quella di Lester Bangs

Exile On Main Street è un disco che assapora il mare, la brezza fragrante e il languore dei tramonti e che, quasi per un contrasto tra luci e ombre, sembra voler macinare l’oscurità per scacciare i demoni attraverso la lucentezza dell’armonica, le chitarre acuminate, la ritmica solida.

Exile on Main Street è uscito solo tre mesi fa e praticamente mi sono fatto venire l’ulcera e anche le emorroidi cercando di farmelo piacere in qualche modo. Alla fine ho lasciato perdere, ho scritto una recensione che era una stroncatura quasi totale e ho cercato di levarmelo dalla testa. Un paio di settimane dopo sono tornato in California, me ne sono procurato una copia per vedere se per caso era migliorato col tempo, e mi ha fatto cadere dalla sedia. Ora penso che forse sia il disco più bello degli Stones in assoluto.

Lester Bangs su Exile On Main Street

Il blues ammanta ogni traccia, screziato dallo swing, sfociando nelle preghiere gospel, strizzando l’occhio al country. È un disco edonista, dove sesso, scorrere del tempo, magia sono uniti e inscindibili.
Appena pubblicato spiazza, confonde, esalta come confessa uno dei critici più grandi di sempre, il giornalista musicale Lester Bangs

La copertina di Exile On Main Street

Ci sono tre artisti incontrati dalla band a Los Angeles, proprio mentre il disco viene rifinito negli ultimi dettagli: il designer John Van Hamersveld, il fotografo Norman Seeff e il documentarista Robert Frank.
Gli ultimi due scattano loro delle foto a Bel Air e sulla Main Street, vicino al Leonide Hotel, dove allora sono presenti il Galway Theatre, un cinema pornografico, un banco dei pegni e un lustrascarpe. Tuttavia, l’immagine di copertina viene scelta da un vecchio libro di Frank, è una foto titolata Tattoo Parlor.
Scattata probabilmente all’Hubert’s Museum and Flea Circus di New York, ritrae un collage di freak, sfruttati a causa di peculiarità fisiche dai circhi. Tra queste foto, compare Hezekiah Trambles, conosciuto come The Congo Jungle Freak, in una foto scattata da Diane Arbus.

Questa foto, con la storia francese, le melodie scolpite nell’immaginario collettivo, la copertina, diventano uno dei dischi più rappresentativi del secolo scorso. E oltre.

Grazie a Nicola Gervasini per l’immagine in apertura.

Samantha Colombo

Sono un'entusiasta delle parole per professione, etnomusicologa di formazione: scrivo, su carta e online, aiuto le persone a esprimersi attraverso la scrittura e navigo serena nella SEO editoriale. Un paio di cose su di me? Nell’anno della mia nascita, i Talking Heads pubblicano «Remain In Light» e la Cnn inaugura le trasmissioni.  Ho una newsletter, i Dispacci, e il mio primo romanzo è «Polvere e cenere».

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